RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


Una notte al museo

Il Trovatore

 

Salisburgo. “Chissà cosa passa loro per la testa – dice il brillante, estroso regista lettone Alvis Hermanis che firma l'allestimento di Il Trovatore al Festival di Salisburgo – Ogni volta che li ascolto parlare ho l'impressione che ciascuno di loro sia una cosa sola con l'opera d'arte”.

Il trovatore o una notte al museo.

In una maestosa pinacoteca colma di quadri “animati” in cui non manca la “sindrome di Stendhal” (ne è colta una guida del museo che sviene davanti a un dipinto per poi “risvegliarsi” nei panni di Azucena) si mette in scena “Il trovatore” di Verdi, al Festival di Salisburgo, con la regìa del lettone Alvis Hermanis, ingegnoso e visionario teatrante di razza il cui talento, prima di altri, il Premio Europa per il Teatro scopriva e impalmava 10 anni fa. I catturanti “cantattori” (i minuti d'urla e d'applausi non si contano) sono Placido Domingo, Anna Netrebko, Francesco Meli, Marie-Nicole Lemieux. Buona direzione d'ordinanza (Daniele Gatti) ma a fare la differenza sono, come sempre accade, i Wiener Philarmoniker, monarchi assoluti del suono.

Quadri parlanti, dunque, gravidi della memoria di ciò che è accaduto ancor prima che si levi il sipario, esattamente come vuole il libretto di Cammarano e Bardare basato su eventi che si compiono prima del dramma in musica (il bambino “stregato”, la madre di Azucena che dal rogo invoca vendetta) e che daranno una ragione ai conflitti che si consumeranno poi in scena. Ma quest'ultima (dello stesso Hermanis) non è l'atrio del Palazzo dell'Aliaferia ma un museo, è qui che Ferrando, nei panni di una guida racconterà il pauroso antefatto non a familiari ed armigeri ma ai visitatori della Galleria, in maglietta e bermuda.

Sicché Leonora è ancora “soltanto” una guida del museo quanto si strugge in “Tacea la notte placida” e guida museale tanto di “pass” al collo è Azucena mentre tuona “Stride la vampa!” (il che, in primis, “stride” non poco). Saranno tutti (ex) guide, insomma, tranne Manrico che, in quanto trovatore è come i quadri, è cioè messaggero d'arte senza tempo.

Un passaggio d'ombre rosse (come i costumi d'epoca di Eva Dessecker, per tutti, notabili e zingarelle) sulle guance dei dipinti ed essi genereranno personaggi pronti a “rivivere” la storia.

Epperò vien da chiedersi: sono i quadri a tornare in vita o i custodi di quelle memorie bellissime e terribili a entrare e uscire dai quadri come accade ai protagonisti della Rosa purpurea del Cairo di Woody Allen?

Fatto sta che questo “ripasso” sulla tela della Storia e della storia si conquista una sua logica scenica e il museo si conferma una teatralissima macchina del tempo. Complice una scenografia consenziente che si apre a trapezio, svuotandosi dei dipinti per ospitare gli eventi del “Trovador” e merito soprattutto di una Compagnia eccezionalmente azzeccata, a partire dal Coro della Wiener Staatsoper, non solo vocalmente ma anche e soprattutto teatralmente appropriato. Attori “in proprio”, uno per uno.

E i protagonisti, ça va sans dire.

Il Manrico di Meli dà un'ottima prova interpretativa, mirabilmente in linea con il primo comandamento del tenore Giuseppe Di Stefano per cui dizione e potenza vocale devono stare rigorosamente sullo stesso piano.

E la Lemieux è possente Azucena, corposa in tutti i sensi e con lei ben figurano Riccardo Zanellato (Ferrando), Diana Haller (Ines).

Vittoria in pugno per Anna Netrebko, già fiabesca “cenerentola” russa (per anni si è spalmata sulle cronache la fiaba di lei che spazza cantando le scale del Marinskij di San Pietroburgo ignara che un certo maestro Gergev la ascoltava, ammirato…) che qui si rivela una Leonora assai più matura della Violetta che quasi 10 anni fa la consegnava (forse anzitempo) ai fasti salisburghesi.

Eppoi c'è Domingo.

Magnifico, credibile e contemporaneo antieroe nel Conte di Luna che, sissignore, è ruolo di baritono. Ma bene fa, Placido - da sempre grande tenore lirico-drammatico ma mai tenore in senso stretto perché tutto sommato già dotato d'una pastosità da voce “scura” che l'avvicinavano più a Nucci che a Kraus – bene fa, dunque, a convertire la sua voce (come già accadeva nel 2009 in Boccanegra e due anni fa nel Tamerlano qui al Festival) a bass-baritone. E l'ha fatto con azzardo e oculatezza, a costo di una rieducazione dell'ugola a cui non si è sottratto, anzi.

E non è gigione mai, Domingo, non cerca mai effettacci ma il rapporto causa-effetto dell'azione scenica, contribuisce veramente alla “causa” dello spettacolo senza cercare – non vistosamente, almeno – riconoscimenti trionfali solo per sé. Non ostenta, non è ieratico, e invece che un'icona preferisce essere carne e spirito riuniti sempre in un ruolo, uno dei tanti affrontati finora, quasi centocinquanta.

Un ultimo “All'armi!” e la pinacoteca è completamente smantellata. La sua parete, adesso chiusa al pubblico, diventa la porta-prigione dei morti. Leonora, Manrico, Azucena. Tutti tranne il Conte di Luna, condannato a sopravvivere.

Carmelita Celi

13/8/2014