RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

9/4/2016

 

 


 

Tannhäuser

alla Fenice di Venezia

Era molto attesa la prima produzione 2017 del Teatro La Fenice: Tannhäuser di Richard Wagner, che sommava il debutto nel titolo del direttore Omer Meir Wellber e il ritorno del regista, talvolta "dissacratore", Calixto Bieito. L'opera romantica Tannhäuser fu rappresentata per la prima volta a Dresda il 19 ottobre 1845 e poi in una seconda versione a Parigi il 13 marzo 1861. È pratica comune, pur essendoci anche altre modifiche, considerare prevalentemente le versioni tedesca e francese, anche se quella di Dresda non corrisponde in realtà alla prima rappresentazione, bensì a un rimaneggiamento di due anni successivi, che modifica il finale. La versione di Parigi è un'elaborazione successiva di circa tre lustri. I cambiamenti riguardano in particolare l'Ouverture, intesa non più come brano a sé stante, ma come "introduzione" per poi svilupparsi nella musica del Venusberg, con diversa orchestrazione e il balletto del Baccanale. Mutano la parte di Venus, più morbida e per mezzosoprano, e ci sono anche altri ritocchi orchestrali con la semplificazione negli atti II e III. Tuttavia i cambiamenti essenziali riguardano in particolare il Venusberg e il personaggio di Venus, che non possiamo considerare dei compromessi con il gusto francese, piuttosto invece come sostanziali miglioramenti nel disegno musicale e nella drammaturgia, poiché alcuni ritengono anacronistiche e insostenibili le proposte di Dresda. Il maggior problema è focalizzato nella tessitura del protagonista, un chiaro esempio (come sostenuto da molti musicologi) di come un compositore scriva inseguendo una sua linea personale non valutando quanto possa essere realizzata nella pratica teatrale, cioè avendo a disposizione un cantante capace di superare l'ardua impresa. Nel nostro caso la tessitura non è molto acuta ma è molto discontinua e in aggiunta scomoda per le molteplici frasi collocate sul passaggio di registro. Una partitura che necessita di un cantante molto controllato nell'emissione e di forte partecipazione come interprete. Se in molti passi primeggia il tenore eroico nel declamato e nel cantare sopra l'orchestra e sulle altre voci, nel racconto del III atto la tessitura si abbassa notevolmente, chiudendo l'opera in un canto morbido di stampo lirico, il quale è caratterizzato da morbidezze.

Tutto quanto espresso sopra mancava completamente a Stefan Vinke, il tenore protagonista a Venezia, il cui canto era una continua mancanza d'intonazione, stentoreo nello stile, poco credibile nell'accento e con un fraseggio contraddistinto dalla monotonia. Un vero peccato perché Tannhäuser è difficile immaginarlo senza protagonista. Ancora più incomprensibile è che la direzione artistica durante le prove non abbia rimediato una tempestiva sostituzione.

Di buona professionalità l'Elisabeth di Liene Kinca, una cantante di buona impostazione canora con timbro lirico e omogeneo nei registri. Avesse avuto qualche slancio espressivo più sostenuto, nella prima aria, avrebbe fatto una gran figura, nella preghiera del III atto ha dato il meglio di sé e le va riconosciuta una buona interpretazione scenica. Non convince la Venus di Ausrine Stundyte, cantante con voce ingolata e poco espressiva, anche se i mezzi sarebbero interessanti, ma necessiterebbero di diverse e ulteriori cure. Nella concezione registica il personaggio era molto azzeccato e di forte impatto teatrale.

Il migliore del cast era Christoph Pohl, Wolfram, giovane baritono di ottime qualità vocali, contrassegnato da un canto morbido, forbito nel colore e di sostanziale espressione nel fraseggio. Pavlo Balakin, il langravio Hermann, ha iniziato con qualche sfasatura poi rientrata e assestandosi sul piano della buona recitazione e decorosa prova vocale. Molto bravo il Walter interpretato da Cameron Becker, tenore di squisita musicalità, cui si aggiungono le prove azzeccate e musicalmente precise di Alessio Cacciamani, Biterolf, Paolo Antognetti, Heinrich, e Mattia Denti, Reinmar.

Un particolare plauso per il giovane pastore interpretato da Chiara Cattelan, e molto bravi e precisi i quattro nobilgiovani: Gianluca Nordio, Veronica Mielli, Emma Formenti e Sebastiano Roson, tutti solisti del Koble Children's Choir del Centro Culturale p.M.Kolbe di Mestre (Venezia).

Sul podio la presenza di Omer Meir Wellber è stata una piacevole sorpresa. Il direttore, che come predetto debuttava nel titolo, aveva a disposizione un'ottima orchestra, particolarmente partecipe e come di rado precisa nel suono, pur con lievi sbavature degli ottoni che si perdonano con stima. La sua lettura è stata molto precisa e teatrale, azzeccando tempi e dinamiche di ottimo effetto e pastosa sonorità. Secondo chi scrive, ha privilegiato l'aspetto narrativo vigoroso, a scapito di tratti romantici e morbidezze che avrei apprezzato maggiormente, ma resta sempre una direzione di ampio respiro e molto calibrata musicalmente, una delle migliori prove di Wellber da me ascoltate in teatro. Il direttore ha optato per l'esecuzione del primo atto nella versione di Parigi, il secondo e il terzo nella versione di Dresda. Bellissima la prova del coro istruito da Claudio Marino Moretti, che proprio nel finale ci regala un momento musicale emozionante.

Resta infine lo spettacolo di Calixto Bieito, che delude non tanto per l'impostazione generale, poco romantica, ma per i superflui inserimenti fuori luogo e talvolta fastidiosi. Per lui, come scritto nelle note, l'opera si svolge nel conflitto tra due donne di diversa concezione ed estrazione sociale. Pertanto bellissima la scena del primo atto con un Venusberg astratto con piante appese in graticcia e in questo giardino si aggira Venus seducente e avvinghiata nel suo amore profano. Non sarebbe servito un esplicito amplesso tra lei e Tannhäuser, con lui che posa le mani e la testa tra le sue gambe. Non per bigotteria, tutt'altro, ma fin lì ci si arriva. La contrapposizione tra amore sacro e amore profano trova una logica nella sua concezione registica, e anche teatrale, ma poi scivola su terreni fragili come il tentativo di stupro che subisce Elisabeth, e il “bondage” che tenta Wolfram quando capisce che non pensa a lui ma prega per il ritorno di Tannhäuser. Elementi dei quali non sentivamo il bisogno. Venus donna libera e solitaria, Elisabeth donna schiacciata e vittima di una società maschile arcaica e primitiva, concetti in parte presenti nella drammaturgia ma molto opinabili. L'ambientazione è moderna senza stile o riferimenti, un banale ambiente borghese che non lascia traccia come i costumi comuni di Ingo Krügler, il quale “veste” le due donne in sottoveste. Rebecca Ringst, la scenografa, azzecca il primo atto con belle soluzioni, si adagia nella ruotine negli altri, anche se la bianca sala dei cantori è stilizzata, ma sembra il giardino d'inverno di una ricca villa. Il coro, ovvero i pellegrini, sono collocati sullo sfondo, come una cosa lontana e irraggiungibile, anche se dobbiamo rilevare che la scena finale è molto teatrale, poiché il coro appare sul proscenico come una serie di anime che tentano e vogliono l'assoluzione divina, lasciando nel dubbio lo spettatore se questa ci sarà. Molto belle le luci di Michael Bauer, speculari e sempre focalizzate sui singoli. Taluni riferimenti sarebbero anche pertinenti, come il feticismo di Wolfram, il patto di sangue dei cantori amici di Tannhäuser, ma sono sempre sviluppati in un contesto quasi morboso e molto accentuati, quando sarebbe stato opportuno molto meno e più eleganza.

Al termine molti applausi a cantanti e direttore, anche se qualche distinguo non sarebbe stato scorretto, una lieve contestazione all'uscita del regista.

Lukas Franceschini

26/1/2017

Le foto del servizio sono di Michele Crosera.