RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Mal reggendo all'aspro assalto

Cronaca di un Trovatore mancato

Uno dei problemi principali legati al melodramma è la sua mimesis estremamente fragile, ancor più oggi, in un mondo dove quasi tutti i conflitti, amorosi e non, in esso trattati, assumono un valore pressoché antiquario, legati come sono a moduli di comportamento e di relazioni sociali ormai obsoleti. In tale ottica, è chiaro che la rappresentazione di un melodramma sarà tanto più riuscita quanto più il lavoro di tutti gli artisti interessati, dal regista all'ultimo dei cantanti, avrà come unico fine quello di rafforzare, per quanto è possibile, tale incerta vis mimetica, racchiudendo per così dire lo spettatore in una coinvolgente bolla musicale e visiva che, quasi in un'epochè trascendentale, lo forzi a partecipare emotivamente a ciò cui sta assistendo.

Tale precisazione era necessaria per entrare il più obiettivamente possibile nel merito de Il trovatore andato in scena il 5 marzo al Teatro Bellini di Catania, con repliche fino al 13. Come molti sapranno, si tratta di un'opera complessa, dove a notevoli difficoltà vocali si affianca quella di un libretto tutto sommato abbastanza frammentario, diviso in quadri generalmente non molto omogenei, libretto al quale manca la fluidità drammatica per esempio riscontrabile in Rigoletto, ne La Traviata o per altri versi in Aida o in Otello. La divisione in quadri del già farraginoso dramma di Gutierrez è ulteriormente complicata dall'ambiguità di fondo del personaggio di Azucena, oscillante e forse demente chiave di volta di un complicato intreccio di passato e presente, ricordi e smania di vendetta, amore e odi politici. Inoltre, i numerosi interventi delle masse corali, talora vero e proprio personaggio interlocutorio, come per esempio nel racconto di Ferrando che apre l'opera, obbligano, qui più che altrove, il regista a curare in particolar modo i movimenti, i ritmi e la gestualità di tali masse.

In tale ottica, la regia di Renzo Giacchieri, che ha curato anche le scene (riprese da un allestimento storico non meglio identificato) e i costumi, è parsa sostanzialmente inadeguata a fornire tale patina unitaria all'opera: su fondali abbastanza oleografici, e talvolta ammiccanti in maniera esplicita a certi bozzetti di Nicola Benois, i personaggi si muovevano con approssimazione, costretti ad una gestualità legnosa e desueta, purtroppo molto rassomigliante a quella delle figurine Liebig che costellavano il programma di sala. Pareva che le lezioni di regia dei Visconti e degli Zeffirelli, tanto per restare in ambito italiano, fossero passati senza lasciare traccia su una messinscena più simile alle oleografie ottocentesche che alle esigenze della moderna drammaturgia musicale. Né i pochi elementi decorativi facevano qualcosa per mitigare tale penosa impressione: basti pensare all'inutile tenda sotto la quale Azucena e Manrico si ritrovano all'inizio della seconda parte, la cui unica funzione sembrava quella di costipare il coro all'interno di uno spazio ristretto, alla tenda di vaga ispirazione persiana della parte terza, dove tra l'altro il coro, durante l'esecuzione di “Squilli, echeggi la tromba guerriera” doveva compiere movimenti a spina di pesce assolutamente inutili, di fatto disturbanti l'icasticità del ritmo del brano, o infine alla scenografia della prima sezione della quarta parte, dove il carcere in cui langue Manrico, e dinanzi al quale Leonora canta la sua grande aria, era talmente stilizzato da accentuare oltremisura l'impressione di cartapesta.

Su questa regia che nulla faceva per agevolare un sia pur minimo processo di immedesimazione, si è innestata la direzione orchestrale di Gianna Fratta, che, pur disponendo di una compagine molto omogenea e dotata di elementi di spicco che hanno dato ottima prova negli assolo, ha imposto ritmi eccessivamente carceranti, da metronomo onnipresente, costipando i cantanti e incalzandoli al punto che è risultato abbastanza difficile, per chi scrive, capirne l'effettivo valore e l'adeguatezza al ruolo. La Fratta ha di fatto dimenticato che, a differenza degli strumenti musicali, i cantanti hanno l'assoluta necessità di respirare, e che dunque compito del direttore, durante l'esecuzione di un melodramma, è sì pensare alla musica, ma anche a tale fondamentale esigenza, dosando le velocità e sforzandosi di accompagnare chi canta, con quell'arte che i pianisti definiscono del rubato, ossia togliere, a vantaggio dell'espressività, quel po' di tempo metronomico che andrà poi recuperato successivamente. Misura eccelsa, che permette sul pianoforte momenti di abbandono ove necessario, e sul versante del canto agevola il respiro, rende espressivo il fraseggio, permette al cantante di dare il meglio di sé, senza essere costretto a precipitarsi, a ingolarsi, o magari a saltare parole e comunque a pasticciare. Prova dei guasti di tale direzione è stato il bellissimo momento del coro femminile “Ah!... Se l'orror t'ingombra”, cantato a cappella, e dunque libero da forzature orchestrali, dove la compagine del Bellini è riuscita a creare un momento mistico di rara efficacia.

Ciò detto, risulta alquanto difficile valutare l'effettiva resa dei cantanti, che hanno dato prova più volte di fatica, costretti a trascurare il fraseggio, che è risultato in generale abbastanza sciatto e gettato lì piuttosto che interpretato come necessario in Verdi. Angelo Villari, nel ruolo di Manrico, è stato a nostro parere, insieme a Nidia Palacios in quello di Azucena, il più penalizzato in assoluto: tenore dotato di buona estensione e di una discreta musicalità, ha manifestato parecchie imprecisioni negli attacchi e qualche incrinatura di intonazione, anche se è riuscito a ben disimpegnarsi nel duetto finale con Leonora. La Palacios, pur cantando con buona tecnica, non ha il timbro cupo adatto alla zingara, anche se la sua zona grave le avrebbe permesso in condizioni diverse di delineare in maniera convincente il personaggio; anche lei ha avuto dei buoni momenti nella seconda parte dell'opera, generalmente meno esposta alle intemperanze della direzione orchestrale.

Baritono con voce ben estesa, Giuseppe Altomare ha trovato qua e là i giusti accenti per il Conte di Luna, ma il bellissimo arioso “Il balen del suo sorriso”, è stato privato, per i motivi sopraelencati, di quel momento di dolcezza e pathos così celebre, sentimenti che a onor del vero il cantante ha tentato in tutti i modi di infondere nonostante non gli venisse lasciato nemmeno un istante per potersi distendere.

Dimitra Theodossiou, Leonora, ha confermato tutto sommato la sua buona scuola, pur nei limiti di uno strumento vocale che mostra segni di usura: sicura negli acuti, un po' meno nella zona media e grave, è stata forse l'unica che sia riuscita a infondere, almeno nella prima parte, un po' di calma alla direzione d'orchestra, sia in “Tacea la notte placida”, sia soprattutto in “D'amor sull' ali rosee”, nel secondo tempo, cantando con sicurezza e professionalità e conferendo al personaggio quel lirismo dolente che deve avere. Da notare che la cantante greca ha ripristinato la cabaletta "Tu vedrai che amore in terra" che chiude la scena prima della quarta parte: si tratta di un brano abbastanza attardato, in stampo belcantistico, ma molto adatto alla sua tessitura, e che la Theodossiou ha interpretato in maniera eccellente.

Infine, Francesco Palmieri, Ferrando, pur se di timbro piuttosto chiaro per la parte, ha cantato con discreta professionalità, riuscendo, anche se costretto ad aggirarsi in maniera inopinata (ma vista e rivista!) per il parterre, a infondere la giusta carica emotiva al suo racconto, che costituisce in certo senso l'antefatto dell'opera.

Un'ultima annotazione: Giacchieri conclude la sua messa in scena de Il Trovatore col Conte di Luna che sembra piantarsi un pugnale in petto. Vorrei ricordargli che il libretto di Salvatore Cammarano recita “Conte (inorridito): E vivo ancor!” con un punto esclamativo, non interrogativo, che non lascia dubbi sulla sua sopravvivenza, tanto è vero che, in tempi andati, la e venne talora interpretata dal pubblico come è, dando adito ad una supposta salvezza di Manrico e ad una altrettanto supposta ed improbabile riconciliazione dei due fratelli.

Giuliana Cutore

6/3/2016

Le foto del servizio sono di Giacomo Orlando.