RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


IL TROVATORE, OSSIA IL TENORE

La ripresa del Trovatore verdiano alla Scala, dopo un discreto numero d'anni di assenza, è stata occasione per riproporre l'ultimo allestimento milanese, che aveva inaugurato la stagione “verdiana” 2000-2001, sotto la direzione di Muti, il 7 dicembre 2000. Curata da Hugo de Ana, la regia costituisce esempio di come uno spettacolo possa essere denso e significativo, se si vuole anche innovatore, pur rispettando epoche e luoghi previsti dal libretto ed evitando di provocare il risentimento del pubblico tradizionalista e le incoerenze che, il più delle volte, le trasposizioni temporali si portano dietro. Si sono apprezzati i quadri scenografici, in particolare l'alba che apre il II atto (Cammarano non dice «atti» bensì «parti», ma ci si può concedere una licenza per la maggiore scorrevolezza del testo) tra rocce e rovine. Anche il monte di cadaveri, a prima vista stomachevole, su cui Leonora canta «D'amor sull'ali rosee», ha il pregio di rendere esplicito il portato di morte e distruzione che la guerra, al di là delle avventure dei protagonisti, riversa su tutti coloro che ne sono coinvolti. Ancor più si sono apprezzati alcuni sapienti interventi registici, quali i movimenti ambigui e carichi di mistero di Azucena durante il racconto «Condotta ell'era in ceppi» e il successivo duetto con Manrico, che lasciano presagire il segreto che la zingara cerca di nascondere in primo luogo a sé stessa; o gli atteggiamenti possessivi del Conte nei confronti di una terrorizzata Leonora, nel duetto dell'ultimo atto. Vero colpo di teatro è il finale II, durante il quale la regia diviene meta-teatrale, poiché illustra in scena le convenzioni che stanno alla base dei numeri musicali dell'opera italiana, e in particolare dei finali d'atto: cioè un continuo alternarsi di fasi di tempo realistico e di espansioni smisurate degli istanti che permettono l'esplicazione del pensiero e dei sentimenti dei personaggi. Così, quando Leonora esprime la propria incredula gioia per l'arrivo di Manrico, i combattimenti fra i seguaci del trovatore e quelli del Conte vengono riprodotti al rallentatore, dando plastica evidenza al fatto che la musica si allinea, in quel momento, alla dimensione del pensiero e non a quella dell'azione.

Tra gli interpreti (ogni commento si riferisce alla recita del 22 febbraio) è brillata la Leonora del soprano Maria Agresta, che ha dato al personaggio un taglio chiaramente belcantistico, grazie a un ottimo controllo dello strumento e a un'espressività misurata ma profondamente introspettiva. Vertice dell'interpretazione è stata l'aria del IV atto, con la delicatezza del cantabile finemente ricamato, capace di far venire la pelle d'oca nella sua lentezza straniante. Nel successivo tempo di mezzo – di grande impatto anche grazie al magnifico coro e agli interventi, misurati, del tenore –, la Agresta ha saputo essere molto incisiva nel comunicare lo sconforto di Leonora, per poi proiettarsi nella cabaletta «Tu vedrai che amore in terra», che, nonostante qualche minima screziatura, è suonata risoluta e al contempo delicata e toccante (pessima idea è stata, nel passato, quella di tagliarla credendo di rendere la drammaturgia più stringente). Il soprano ha comunque dato ottima prova di sé fin dall'inizio della rappresentazione, con il cantabile d'esordio stilizzato così come lo volle Verdi, e l'acceso lirismo della frase «Sei tu dal Ciel disceso» nel finale centrale. Si può comunque senza timore affermare che l'ultimo atto sia stato quello nel complesso meglio riuscito, nel quale la rappresentazione ha raggiunto il giusto equilibrio esecutivo e nel quale ogni interprete ha saputo porre le proprie caratteristiche vocali al servizio della musica e della drammaturgia. Ciò è valso in specie per il mezzosoprano Ekaterina Semenchuk, che in «Ai nostri monti» ha potuto valorizzare il bel timbro e la varietà di colori del proprio registro centrale, concentrandosi sul fraseggio e sulla delicatezza d'emissione e trasformando in sogno il delirio di Azucena; in precedenza, l'interprete, mostrando qualche difficoltà nel controllo della gamma più acuta delle note, aveva penalizzato il ventaglio dei colori espressivi.

Anche il tenore Marcelo Álvarez, nel ruolo di Manrico, ha avuto i momenti migliori nell'ultima scena, quando la sua tendenza a gigioneggiare è stata funzionale a rendere plastici i tormenti del trovatore che si confronta prima con il terrore d'essere stato tradito da Leonora (esemplare è stato il verso «Da chi l'avesti ed a qual prezzo?», pronunciato con il ritegno di chi ha timore di porgere una domanda fatale) e poi con la consapevolezza del sacrificio compiuto dall'amata. In altri momenti, la gigioneria di Álvarez è parsa un po' eccessiva: vero è che il ruolo di Manrico, con Otello, Andrea Chénier e un paio di personaggi pucciniani, è quello su cui più si è formato, nella mente dei melomani, lo stereotipo di tenore che l'argentino incarna; ma è anche vero che, almeno per Il trovatore, in tempi recenti questo modo di cantare è stato superato dalla riscoperta della natura belcantistica della partitura. E, in una rappresentazione che fa perno proprio su una lettura belcantisticamente curata, l'interpretazione di Álvarez risulta spesso sopra le righe e poco rispondente a quella dei suoi colleghi. Massima evidenza di ciò si è avuta al momento della “pira”, che, unica tra le cabalette della serata, è stata cantata senza ripetizione, nell'intenzione di emettere i tradizionali do che, a dire il vero, non sono riusciti così nitidi e luminosi. Questo personalismo, quand'anche venga da un solista, come Álvarez, di cui non si mettono minimamente in dubbio le doti vocali e le qualità tecniche, dispiace perché pone la singolarità dell'interprete al di sopra della lettura della partitura suggerita dal direttore, quasi inserendo un corpo estraneo nell'esecuzione. Il baritono Franco Vassallo non brilla per nobiltà del timbro, e questo tratto, se lo favorisce nel sottolineare il lato brutale del carattere del Conte di Luna, lo penalizza nell'esprimere i sentimenti dell'innamorato deluso, per i quali pur si impegna in un fraseggio umano emozionale; così, dell'aria del II atto risulta più appropriata la cabaletta ormonale (di cui Vassallo evita di caricare il ritmo giambico) che il cantabile sognante. Delude un po', a fronte delle significative interpretazioni che da lui si sono ascoltate nel repertorio wagneriano, il basso Kwangchul Youn nel ruolo di Ferrando, tratteggiato con una voce toccata dal vibrato e un fraseggio generico e poco incisivo, perspicuo solo nell'esprimere il senso di mistero nell'ultima porzione del suo racconto all'inizio dell'opera.

Non resta, infine, che plaudere al coro, istruito da Bruno Casoni; e incoraggiare il giovane direttore Daniele Rustioni, che ha mostrato, e non è la prima volta, una buona analisi della partitura e ha tentato una lettura curata dell'opera: incoraggiarlo a tener fede alla propria lettura senza scendere a compromessi che rischiano di minare la coerenza di una serata.

Marco Leo

8/4/2014

Le foto del servizio sono di Brescia/Armisano - Teatro alla Scala di Milano.