RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Gabriele d'Annunzio tra amori e battaglie,

tra divine creature e … disco teatro

“There's only one thing in the world worse than being talked about, and that is not talked about”. Bene o male purché se ne parli, insomma.

Niente che s'attagli di più al Wilde di Dorian Gray (a lui e al suo Picture appartiene, infatti) e a Wilde tout court.

E niente, forse, avrebbe fatto più piacere (la citazione è involontaria ma solo a metà) al dannunziano Andrea Sperelli – che, con un pizzico di buone intenzioni e tutti i legittimi accostamenti, di Dorian potrebbe essere il lontano, italico cugino – e a D'Annunzio tout court.

E probabilmente è solo in nome di quell'esistenziale, doloroso e inebriante aforisma dell'immenso Oscar Wilde che possiamo farci una ragione di D'Annunzio tra amori e battaglie, lo spettacolo scritto a quattromani da Francesco Sala e Edoardo Sylos Labini – il primo regista, il secondo protagonista di un “wikipedico” omaggio al Vate che sèguita a girare i teatri d'Italia, non ultimo lo Stabile di Catania in cui lo spettacolo, dopo aver già fatto tappa l'anno scorso, fa una nuova epifania nella stagione 2013/2014.

E francamente - sic stantibus rebus, s'intende, e cioè in questa confezione di malcelata fiction televisiva - non ne sentivamo punto il bisogno. Ancor meno, poi, se pensiamo alle parole dello stesso Pescarese: “Non più chi soffre ma chi più gode conosce”. Qui, conoscenza e godimento sembrano decisamente lontani. Tra loro e da noi.

Un conto (e da conto), infatti, è l'appassionato, colto, intrigante e tutto sommato autorevole (è pur sempre il riconosciuto presidente del Vittoriale) contributo bibliografico di Giordano Bruno Guerri (L'amante guerriero) di cui viene in questa sede riportata una “consulenza” chissà quanto effettiva. Un altro, è (ri)comporne una pièce che abbia autonomia teatrale e vita propria e che qui, invece, non rivela nerbo drammaturgico, non opera scelte di campo: un solo personaggio tra gli altri, per esempio, o magari una sola storia invece di molte, troppe, “toccate e fugate”. Al contrario, si procede per assemblaggio di episodi, materiali, drappeggi, divine creature (la ricostruzione scenica di Gardone Riviera così come i costumi sono di Marta Crisolini Malatesta) il cui risultato sta a metà tra un biopic di mezza portata ed il fotoromanzo.

A ciò si intona perfettamente il piglio (molto impegno, non poca filodrammatica) delle attrici - Giorgia Sinicorni, Silvia Siravo, Alice Viglioglia – “tre donne intorno al cor” più una, Viola Pornaro nei panni della Duse, forse l'unica in grado di restituire respiro teatrale all'intreccio, nonostante i segni di certa sintassi ronconiana alla quale resta visibilmente legata.

Music is my mistress, diceva Ellington.

La musica è la sua amante (per il Duke), la musica e le sue amanti nel D'Annunzio secondo Sylos Labini. La prima moglie, impalmata (e rovinata) giovanissima, Maria Hardouin principessa di Montenevoso, che gli darà tre figli; la proteiforme, trasgressiva Luisa Baccara, pianista; la devota segretaria-amante-guardiana Amélie Mazoyer. E, ça va sans dire , la leggendaria, impareggiabile, infelicissima Eleonora Duse.

Sopra tutte e tutto, lui, il Vate. Edoardo Sylos Labini non bada a spese in termini di passione e dedizione al ruolo ma ne offre una caratterizzazione malferma, innestata in un discutibile talento d'attore: tenta – ed ha ragione – la via del sarcasmo ma spesso non ne ha la tempra. Peccato perché (dopo aver finalmente dato prova del fatto che il teatro di D'Annunzio è “praticabile” eccome, e non solo con l'inflazionata “Figlia di Jorio” ma in “La fiaccola sotto il moggio”, vedi il mirabile esempio della Compagnia dei Giovani o la messinscena firmata da Piero Sammataro vent'anni fa, proprio per lo Stabile di Catania) sarebbe stata, questa, l'occasione buona per affrancare il Nostro da un embargo che per lustri e lustri l'ha voluto indissolubilmente legato al fascismo. E ben sappiamo come quest'ultimo abbia poco a che fare con il disprezzo individualistico del Poeta, tendenzialmente aristocratico dei limiti etici imposti dalla morale comune. Niente a che vedere, poi, la postura fascista, con la sensualità raffinata, stanca, aggressiva che accompagnava il “superuomo” così come assai poco fascisti erano il suo praticismo politico e, last but not least, l'erotismo senza limiti o barriere istituzionali.

Ma chiuderemo in bellezza.

La musica e le sue amanti, dicevamo poc'anzi.

E detto delle seconde, diremo ora della prima, incarnata da un singolare, proteiforme, “scattoso” disc jockey-dandy, Antonello Aprea, che è il vero guizzo creativo dello spettacolo.

Assai più del mattatore, è lui ad incarnare l'onnipresente, martellante memento audere semper e osa, osa già in apertura con un catturante Wagner in synth non senza imbambolarsi, subito dopo, come in una foto, immobile, conciato e (s)pettinato come il Vate, quasi un “gemello” di Sylos Labini.

E l'altra voce dello spettacolo, Aprea, non verbale ma più eloquente della parola parlata, è semplicemente e argutamente l'altra lingua dello spettacolo.

E quanto sudore versato dal critico che, hic et nunc, si è meritoriamente prodotto a coniare un termine ad hoc: disco teatro. Non bastava dire, per esempio, “musiche originali eseguite dal vivo” per un nobile, bizzarro, inquieto artigiano della musica?

Carmelita Celi

25/4/2014