RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


Una concertazione a due mani,

tra solitudine e isolamento assassino

L'inferno in una stanza.

E all'inizio si ha quasi la tentazione d'accostare quei due sciagurati a Fando e Lys di Fernando Arrabal, non foss'altro che per la menomazione di lei (lì paraplegica, qui zoppa), in una wasted land apocalittica in Arrabal, in questa sede in uno sgangherato garage post-bekettiano che non promette nulla di buono.

Nient'affatto.

Se la coppia della pièce di Fernando Arrabal era pur sempre animata da complicità ed una singolare ma innegabile forma d'innamoramento, questi due – Francesco, naziskin sputato con due eloquentissime S tatuate sul braccio che non significano esattamente “strada statale” e Mariana, una sinti rom claudicante ed epilettica - sono decisamente le ultime creature da dover mettere vicine.

Eppure là devono stare, rinchiusi fino allo spasimo, in La vertigine del drago di Alessandra Mortelliti (la “prima” assoluta è stata al Festival di Spoleto 2012 non senza la supervisione del testo curata da Andrea Camilleri, nonno dell'autrice) che ne è anche interprete insieme con Davide Riondino, regista dello spettacolo, in scena al Teatro Musco per la stagione dello Stabile di Catania su scene e costumi di Biagio Fersini.

Dopo un “colpo” andato a male (si è trattato in realtà di un fallito agguato ad un campo rom) il nazi, gravemente ferito – sapremo più avanti che a sparargli è stato il marito attempato della rom – prende in ostaggio proprio lei, trascinandola nello squallido seminterrato in attesa di un Ordine (Nuovo o di Casa Pound, il lezzo cambia poco). Mariana è dunque sua prigioniera benché egli si riveli assai meno carnefice di ciò che vuol dare a intendere, con il suo vomito verbale a base dei più nefandi luoghi comuni del razzismo senza quartiere, il meglio del peggio della xenofobia della prima e dell'ultima ora.

Nessuna sindrome di Stoccolma, per carità, ma tra i due, nonostante la riluttanza violenta e volgare di lui, scatta una sorta di insospettata, rattoppata affinità elettiva, lirica controvoglia.

Mariana avrebbe voluto fare la ballerina se solo tutte e due le gambe l'avessero accompagnata e ancora di più il medico: l'iniziale carosello di saracinesche in cui i due scorrono su un girevole, vedono lei non ancora Mariana con guanti di lattice e camice da chirurgo – ma è un “suggerimento” poco leggibile, in apertura, a cui s'arriva con il senno di poi. E dopotutto sarà lei a medicare a lui la brutta ferita e dal canto suo, Francesco - prima di un'incursione nella giungla del “fuori” molto più asfittico e letale di quel garage senza finestre - le lascia persino un televisore con una montagnola di videocassette in cui però lei non trova il suo film preferito, Dirty dancing che, più avanti, si ostinerà a raccontare nei dettagli e soprattutto in un esilarante, catturante “simil-rumeno” con strascico romano.

La resistibile ascesa dello skinhead fa presto a diventare discesa, salvo il delirio d'onnipotenza di quel sogno trafitto da luci ossessive e scandito da hard rock in cui Francesco, sfinito dall'emorragia della ferita, nei panni di pasticcere-macellaio-dottor Mengele, “cucina” strani manicaretti.

Mariana se la fa addosso a ripetizione prima d'aprir bocca ma, impedita e sorvegliata com'è, pretende che lui le permetta di lavarsi come si deve e che gli dia un cambio di pantaloni asciutti ma la sua vulnerabilità si converte in una saggia emancipazione “fai da te”. S'inventa d'aver figli ma poi lo nega, parla di quelle nozze obbligate con il vecchio rom ma non sembra esserne impaurita. E appena sospetta che Francesco voglia disfarsi di lei vendendola, si ribella e si precipita fuori appena lui le apre la saracinesca, lui che, di nuovo “accoppato” mentre era fuori, ritorna dentro, sanguinante.

Esce ma ritorna, Mariana. Perché e per chi non si sa.

Si è inceppato qualcosa nell'Ordine o magari si è inceppato qualcosa nell'odio sistematico, nell'indottrinamento becero e razzista dei primi momenti.

Alessandra Mortelliti dice di non voler rinunciare all' happy ending e forse questo in qualche modo lo è.

Questa fessura all'apice della solitudine e dell'isolamento assassino più che un finale “aperto” è la promessa di un'evoluzione compositiva, di una maturità di scrittura che chissà non sia già evidente in Crollasse il mondo, il nuovo testo – il terzo, dopo l'esordio con Famosa, la vicenda del giovanissimo trans che sogna di andare ad “Amici” - che la Mortelliti si prepara a consegnare alle platee. Intanto ne “liquida” ironicamente l'assunto: un dialogo tra uno che parla pochissimo e a stento ai limiti della balbuzie ed una logorroica impenitente che sfoggia pure uno strano accento americano.

Poco più di un giro d'orologio, dunque, per una drammaturgia che di drammatico lascia solo la “crosta” della cronaca vera – esasperato, esacerbato, esagerato l'accanimento coatto di Riondino, a tratti con un piglio più da cinepresa che da palcoscenico – ma poi preferisce la corda del grottesco. E qui che la Mortelliti (che sa anche essere attrice con passo di piuma, l'apprezzammo moltissimo nel melologo Il pimpigallo a Notomusica, a fianco di Nino Frassica) gioca bene d'effetto comico, sul pastiche linguistico specialmente, tanto improbabile quanto verosimile.

Per la prima volta alle prese con un allestimento non orchestrato con la sua Compagnia (con Fabrizio Ferracane e Daniele Pilli) Michele Riondino confessa la sua passata diffidenza nei confronti della figura del regista, a cui non riconosceva una funzione determinante.

E di ciò lo spettacolo non fa mistero giacché la realizzazione di La vertigine del drago (il titolo dal tatuaggio di Francesco che sembra precipitare sul derma delle certezze) non porta segni o particolari cifre registiche ma piuttosto si offre come una concertazione a due mani, tanto nell'interpretazione quanto nella confezione in cui non c'è separazione di compiti ma ciascuno assolve le due funzioni, insieme e individualmente.

Per questo da entrambi - attori appassionati e pensanti - e su entrambi i fronti – drammaturgia e regìa – attendiamo nuove partenze e nuovi approdi.

Carmelita Celi

15/2/2014

Le foto del servizio sono di Giacomo Cannata.