RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Ripensare la tradizione

Opera insidiata dalla routine oggi più di ieri (il proliferare delle sue messinscene “areniane” è fenomeno degli ultimi lustri), Nabucco corre i rischi dei capolavori equivocati e preterintenzionali: perché un'opera-oratorio, quale la concepì Verdi, si è trasformata in epitome del melodramma patriottico-barricadero; e perché la sua scrittura ancora parzialmente tardobelcantistica (il ventinovenne autore, all'epoca con solo due altre partiture alle spalle, non aveva in mente alcuna rivoluzione copernicana sul fronte della vocalità) nel tempo è slittata verso quella di un Verdi più tardo e meno stilizzato, più sperimentale e meno attento allo Zeitgeist. Stando così le cose, il Teatro delle Muse di Ancona – nell'inaugurare la stagione con questo titolo – ha fatto la scelta giusta rivolgendosi a un eccellente direttore da tempo assente nei nostri teatri come György Györiványi Rath: latore di una lettura musicale lontana dalla tradizione, ma sempre sotto il segno di una personalissima idiomaticità.

Già l'ouverture appare estranea a ogni prassi consolidata: un autentico brano sinfonico – come si addice all'avvio di un melodramma “oratoriale” – dipanato con una spaziosità inconsueta. Tutta la prima parte si mantiene su un pedale di sonorità moderate, all'insegna d'una severità perlopiù sommessa e senza le escursioni dinamiche cui siamo abituati: l'evocazione dell'atmosfera resta tutta racchiusa nella concentrazione fraseggio strumentale, le occasionali virate verso il “forte” e il “fortissimo” hanno quasi il sapore d'una divagazione, d'un conato di slancio che Verdi fa poi subito ripiegare su se stesso.

Quando poi l'orchestra attacca il tema di quello che, nel terzo atto, si trasformerà in Va', pensiero sull'ali dorate, il sapore è proprio quello del secondo movimento d'una sinfonia, anziché della pura citazione tematica. Se Ráth, fino a quel momento, poteva aver stupito per l'inconsueta lentezza del tempo staccato, qui rispetta alla lettera la prescrizione verdiana di Andantino, ed evita le tradizionali dilatazioni dei direttori che vogliono far delibare questo passaggio trasformandolo in un Largo (“Fate attenzione, eh!, ché in bocca al coro poi diventa il Va', pensiero ”…). In tale maniera si viene a creare, anche linguisticamente, una sorta secondo capitolo all'interno del periodare musicale: tanto più perché – rispetto alla prassi esecutiva – il passo aumenta, sì, di speditezza, ma l'analiticità è maggiore. Gli “staccati” verdiani, infatti, vengono resi con un'inequivocabilità e una nettezza cui l'attuale medietas direttoriale ci ha disabituati; e pure questo contribuisce a imprimere l'idea d'un movimento sinfonico autonomo.

Sarebbe lungo elencare tutti quei casi in cui Ráth si affida a tempi di volta in volta più lenti o più veloci del consueto, trovando sempre un'impeccabile coerenza nell'articolazione interna: il coro dei magi inteso non tanto come “tempo di mezzo” tra aria e cabaletta di Abigaille, quanto vero e proprio organismo destinato a innestarsi su quest'ultima (costruita a sua volta per progressioni drammatiche, anziché incalzante sin dall'incipit); i “da capo” realizzati in funzione di ripensamento agogico-dinamico della prima esposizione, anziché di mera variazione vocalistica; lo stesso Va', pensiero visto non come climax emotivo ma momento sospeso, una sorta di canto infinito il cui riverbero si protrae oltre l'ultimo accordo orchestrale. L'Orchestra Filarmonica Marchigiana (ensemble dal rendimento variabile a seconda delle produzioni e delle serate) risponde molto bene alle sollecitazioni della bacchetta, e anche il Coro Lirico Marchigiano “Vincenzo Bellini” appare meglio amalgamato del solito: se solo si fosse rinunciato a qualche inutile puntatura – unico pedaggio che Ráth ha inteso pagare alla tradizione – sarebbe possibile parlare di un'esecuzione musicale perfetta.

Il cast è su parametri più tradizionali e si attesta su una buona, o anche ottima routine. È il caso di Rebeka Lokar: una specialista di Abigaille che la lunga consuetudine con il ruolo non avrà portato a scavi callasiani e avventure interpretative illuminanti, ma può contare su un'organizzazione vocale saldissima dove il suono – tanto dovizioso in natura quanto perfettamente manovrato dalla tecnica – ha già di per sé una forte valenza espressiva. Cantante composta per temperamento (e forse pure perché la stessa copiosità dei mezzi l'induce a evitare di aggredire il fraseggio), trova in Enrico Petti un protagonista ai suoi antipodi: assai meno misurato della collega (doversi confrontare con la fenomenale colonna di suono del soprano sloveno potrebbe averlo indotto a forzare), non sembra accontentarsi della sua natura di baritono lirico – che pure sarebbe stata sufficiente a modellare un Nabucco intenso ed efficace, come hanno insegnato Taddei e Bruson – e va di acceleratore sulla laringe. Ne derivano un'entrata in scena ragguardevole (il timbro è bello, la dizione ottima) e tuttavia un po' plateale, un secondo atto più morbido e concentrato, un proseguimento con sprazzi significativi ma sempre all'insegna degli eccessi di sottolineatura, che lo fanno arrivare in cattiva forma all'appuntamento con Dio di Giuda.

Al contrario, Nicola Ulivieri non tenta di camuffare la propria voce soffice ma ormai consunta: canta con linea elegante e sicura, senza occultare i mezzi attuali; e così facendo rinuncia al versante implacabilmente sacerdotale di Zaccaria, recuperando però quella civiltà belcantistica che il personaggio possiede, sia pure solo a tratti e in filigrana. Sottotono la Fenena di Irene Savignano (gradevole quando la voce deve salire, ma molto infossata nel registro di petto) e l'Ismaele di Alessandro Scotto Di Luzio, mentre i comprimari risultano più a fuoco scenicamente e – almeno nel caso dell'Anna di Antonella Granata – pure vocalmente.

Mariano Bauduin firma uno spettacolo realizzato in economia, comunque stilizzato e funzionale (anche grazie alle scene di Lucio Diana). Con echi – molto discreti – del teatro orientale, utili ad affrancarsi dallo “specifico” biblico della vicenda, e forse qualche mimo-danzatore di troppo.

Paolo Patrizi

27/10/2024

La foto del servizio è di Giorgio Pergolini.