EDITORIALE
14/12/2024
Sinfonie d'Oriente (anzi, d'Egitto)
Il 2024 verrà ricordato non solo per i bicentenari musicali, ma anche per quello del Museo Egizio di Torino. Sebbene i primi manufatti iniziarono a pervenire fin dal 1626, infatti, il Museo si costituì come tale soltanto nel 1824, con l'acquisizione da parte di Carlo Felice dell'imponente collezione di Bernardino Drovetti (più di settemila pezzi). Il compleanno bisecolare è stato salutato da convegni, conferenze e da un grandioso intervento architettonico sul percorso espositivo. Non sono mancati poi festeggiamenti e manifestazioni, anche di carattere artistico. Sistema Musica, ad esempio, ha indetto il festival Incanto Egizio, tredici appuntamenti, dal 12 ottobre al 19 dicembre, che spaziano dalla classica al jazz, dalla musica antica al Novecento, talvolta con composizioni commissionate appositamente. Quello di mercoledì 4 dicembre 2024 elegge a sua sede il Conservatorio Giuseppe Verdi di Torino in un concerto chiamato “Sinfonie d'Oriente”. “Oriente” con riferimento, ça va sans dire, all'Egitto. È nota infatti la fascinazione esercitata dalla cultura nilotica sui compositori di tutti i tempi: basti ricordare L'Égyptienne di Rameau per clavicembalo (1728), il Giulio Cesare di Händel (1724), già musicato da Antonio Sartorio (1677), e il Cesare in Egitto di Pacini (1821). Tra l'altro, Laurent Pelly, allestendo per la prima volta il titolo händeliano nella capitale sabauda (2014), ha riprodotto sul palcoscenico del Teatro Regio proprio i depositi di un museo, che fra statue e obelischi ci voleva poco a far coincidere con quelli dell'Egizio.
Sul palcoscenico del Conservatorio, invece, la bacchetta di Christopher Franklin guida l'Orchestra del Regio in una pagina tratta dal titolo “egizio” per antonomasia: l'Aida. La scelta cade sulla Sinfonia, di rarissimo ascolto, composta nel 1871 a ridosso della prima ufficiale del Cairo (24 dicembre) in vista della prima italiana. Il piccolo Preludio poteva andar bene per il Teatro khediviale: per il debutto scaligero dell'8 febbraio 1872 Verdi voleva fare le cose (ancora più) in grande: e così, proprio come nel '69 aveva ampliato a Sinfonia il Preludio della Forza pietroburghese del '62, ampliò anche stavolta il Preludio dell'Aida cairota a Sinfonia; salvo poi pentirsene in fase di prove e lasciare il Preludio. Less is more. Ascoltandola, si può capire perché: aleggia l'impressione di un patchwork, di un collage di temi che vengono più giustapposti che organicamente messi in dialogo; ma, in mezzo a una certa prolissità, si percepisce la zampata del leone in quei passaggi dove Verdi è trascinato dalla bellezza del suo stesso comporre. Franklin e l'Orchestra del Regio ne danno una lettura calda ed entusiasta, a tratti esuberante e nella coda persino bandistica; ma l'impeccabilità del suono non tarda a emergere da una compagine che ha abituato all'eccellenza, e una nota di quel “di più” che in parte stona serve solo a far capire forse perché Verdi alla fine decise di chiuderla in un cassetto. Da parte sua, Franklin riesce nell'intento di tenere unita l'orchestra, di non farla sbandare in questa partitura ellittica e un po' disomogenea, “tenuta” che si segnala come il tratto vincente di questa direzione.
Un'orchestra che ha modo di mettersi ancor più in luce nella seconda parte del concerto, con l'esecuzione dei ballabili dal Moïse et Pharaon. Rossini li compose quando adattò il Mosè in Egitto del periodo napoletano ai fasti dell'Opéra parigina (1827), in parte attingendo a pagine del Ciro in Babilonia e dell'Armida. Calata nel panorama degli ascolti italiani, questa esecuzione ha il valore aggiunto di uno spin-off della produzione del Mosè circolata nei Teatri dell'Emilia nell'ottobre e novembre scorsi. Con l'Egitto biblico, l'Orchestra del Regio amplia il suo ventaglio coloristico, e le tre Air de danse permettono alle sue sezioni di emergere in modo più isolato. Plauso particolare meritano qui i corni, precisi e duttili nonostante le contorsioni melodiche cui sono obbligati. Da parte sua, Franklin alleggerisce lo spessore sonoro, avendo cura di rifinire l'esecuzione con buon garbo ed equilibrio, graduandola di espressione e placando parte dell'esuberanza verdiana in funzione di un'eleganza diffusa, anche se un poco anodina.
Incastonato fra i due momenti operistici, si impone il Concerto per pianoforte e orchestra nº5 in fa maggiore Op.103 di Camille Saint-Saëns. Esso trae il suo soprannome, “L'Égyptien”, dalla melodia del secondo movimento, una nenia nubiana ascoltata in riva al Nilo e annotata, per mancanza di carta, sul polsino inamidato della camicia (la lavanderia ringrazia…). Questa nenia, dai caratteristici gradi alterati “all'orientale”, sarà lo spunto per il resto della composizione che si concretò quasi del tutto nel 1895 in un albergo di Luxor. Chiamato a dar vita al Concerto, il ventenne – e già pluripremiato – Pietro Verna si distingue fin da subito in questa prestazione vivida e partecipata grazie a mani al contempo d'acciaio e di velluto, capaci di unire energia e delicatezza nei passaggi accordali e nelle perlature fresche e sgranate dell'Allegro animato, dove traspare tutta la Francia estetizzante fin de siècle in parte figlia di quel “belcanto pianistico” di matrice chopiniana. Peccato solo che preziosismi e cesellature vengano talvolta conglobati nel tessuto orchestrale, compatto nel sostenere il solista ma a tratti prevaricante. La magia si concreta nell'Andante centrale, dove sembra di respirare da una parte qualcosa di moresco e zigano delle Rapsodie di Liszt, dall'altra già il decadentismo del Rach 2; magia armonica garantita ancora una volta da un'ottima orchestra, con archi in grado di sfoggiare una sonorità dapprima ritmata e tesa, con ribattuti molto precisi, poi liquida, nella sezione centrale, soffice tappeto per le evoluzioni del solista, e poi ancora vibrata e solida, pur nel pianissimo dei fitti tremoli all'avvio del Più mosso, chiesti sul ponticello, fino alla conclusione evanescente e impalpabile degli arpeggi del pianoforte.
Ci pensa il brioso virtuosismo del Molto allegro a risvegliare il pubblico dalla trance, spumeggiante esibizione di vitalismo maneggiato con elegante souplesse e attentamente controllato attraverso fluide efflorescenze. La coda, nerboruta e scoppiettante, suscita infine entusiastici applausi: il ringraziamento di Verna è Warum?, il terzo dei Fantasiestücke Op.12 di Robert Schumann, inatteso quanto gradito.
Christian Speranza
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