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EDITORIALE

19/2/2025


L'arte di fare musica insieme

In tempi d'identità di genere, dire che “l'Orchestra è Donna” – come suggerirebbe il nome dell'Orchestra Leonore, implicito omaggio al personaggio beethoveniano e alla sinfonia eponima – può sembrare un cavalcar di mode. E se oggi poi all'identità si aggiunge un sentore di fluidità (Leonore, nel Fidelio, è, sì, una donna, ma agisce travestita da uomo), viene addirittura da scorgervi un'operazione di marketing. Sarebbe però un'impressione del tutto fuorviante: fondata nel 2014, ma giunta a una certa risonanza mediatica solo negli ultimi anni, l'Orchestra Leonore è in realtà uno dei progetti più utopistici, sognatori e, in definitiva, antimodaioli profilati nella vita musicale italiana in questo primo scorcio di ventunesimo secolo.

Ne siamo debitori a Daniele Giorgi, violinista per formazione e direttore d'orchestra per vocazione, che ha dato vita alla sua creatura in una provincia tanto appartata quanto ricca di potenzialità come quella di Pistoia. Il risultato è una sorta di ecosistema musicale, che abbina l'identità del territorio (agli appuntamenti teatrali si affiancano, in formazione cameristica, quelli nelle scuole, negli ospedali e nelle case di riposo) a un respiro internazionale, dato che Leonore riunisce strumentisti provenienti dalle più disparate compagini italiane e straniere. Si tratta dunque di un'orchestra che si assembla solo periodicamente, laddove le agende dei singoli lo consentano, oltre che destinata a un fisiologico turnover; e che, tuttavia, proprio per questo riporta a un'idea antica e dimenticata di autentico “far musica insieme”, dove al violino di spalla della Filarmonica di Bergen si affianca la flautista del Cocertgebouw, mentre al cornista dell'Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai fa eco un contrabbassista della Staatskapelle di Dresda.

In tale prospettiva, il lavoro di Giorgi sui suoi strumentisti non è quello del classico direttore d'una grande compagine internazionale: lavoro – oggi come oggi – simile a quello del pilota di Formula 1, che si mette al volante di una macchina perfetta i cui ingranaggi sono già autosufficienti, senza influire in termini “ontologici” sulla timbrica e sul fraseggio dell'ensemble chiamato, appunto, a pilotare. Niente bacchetta, notevoli attitudini mimiche, gioco di braccia dal rigore geometrico in dialettica quasi antinomica con mani e dita vibratilissime, Giorgi non crea una cornice d'ordine attorno a un quadro che gli orchestrali hanno già plasmato in autonomia: piuttosto, intesse un gioco di sollecitazioni – anziché di prescrizioni – che rende ogni serata un'avventura interpretativa a se stante, con esiti potenzialmente assai diversi tra una replica e l'altra. Lo si nota anche nel programma impaginato in quest'ultimo concerto della Leonore (repliche pure a Ravenna e Mantova, ma la recensione fa riferimento a quella pistoiese), che abbinava lo Chopin del Primo Concerto per pianoforte e orchestra allo Schumann della Sinfonia Primavera.

La storia della musica ha ugualmente sdoganato, in Schumann, il compositore per pianoforte e il sinfonista, mentre ha sempre negato allo Chopin orchestratore la grandezza dello Chopin pianistico. L'Orchestra Leonore e il suo direttore tendono però a suggerire un mutamento di prospettiva: grazie anche alla presenza di un solista rarefatto e antidimostrativo come il venticinquenne Arsenii Moon, il concerto chopiniano si trasforma in uno scontro tra l'orchestra e la tastiera che è, per una volta, ad armi pari: scontro, certo, sul terreno emotivo anziché su quello dialettico (Chopin non è Beethoven), ma che comunque non prevede il primeggiare pianistico. Dal canto suo, Moon sottolinea il ripiegamento malinconico piuttosto che l'energia romantica della pagina e delle due polarità che essa richiede all'esecutore – tecnicismo e virtuosismo – sembra interessato alla prima più che alla seconda: caratteristiche confermate poi nel bis debussyano.

Nella Primavera risalta ancor meglio quel dinamismo sfumato e pulsante che è un po' la cifra del gesto di Giorgi e della sua interazione con i musicisti. Ne sortisce una lettura fresca, brillante, senza tentazioni altisonanti né irrequietezze presaghe dello Schumann che verrà: insomma vicina a quella che – probabilmente – era la visione che ne aveva un protoromantico come Mendelssohn, cui spettò di dirigere la prima esecuzione di questa pagina. Ma soprattutto si esce di teatro con la sensazione di essersi abbandonati a Chopin e Schumann come puro piacere di ascolto, senza troppi retropensieri musicologici e nella consapevolezza che, come diceva Georges Dumèzil, l'arte non si lascia disturbare dai suoi significati.

Paolo Patrizi

La foto del servizio è di Camilla Pietrarelli.

 

 

 

 

 


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