«Un'opera che riflette l'intero creato»
La Terza Sinfonia di Mahler al Teatro Massimo Bellini di Catania
La stagione concertistica 2024/25 del Teatro Massimo Bellini di Catania si apre all'insegna del gigantismo sinfonico con la Terza Sinfonia di Gustav Mahler. Venerdì 15 e sabato 16 novembre 2024 il pubblico catanese ha avuto modo di immergersi nel mondo sonoro mahleriano e di testare la solidità e la valentia delle risorse artistiche di questo Teatro, dato che l'orchestra, allargata al centinaio, la solista e i cori sono stati piegati a una varietà espressiva davvero notevole, seguendo la fantasia di un compositore che sfrutta il genere sinfonico quale contenitore narrativo della propria interiorità, qui permeata da un grande amore e una grande sensibilità per la natura, scrutata sia nei suoi lati oscuri, misteriosi e crudeli, sia in quelli estatici.
Temprati i turgori apocalittici della Seconda, infatti, nella Terza Mahler si rivolge a quella natura nella quale tanto amava immergersi nelle pause estive del suo lavoro di direttore. E, analogamente a quanto aveva già fatto per la Prima e la Seconda, anche per la Terza soppresse tutte le indicazioni programmatiche, dopo che gli furono state utili quale cèntina per sorreggere l'immensa impalcatura del lavoro. Nelle estati del 1895-96, quando la Sinfonia era in piena gestazione, l'autore voleva ancora guidare il pubblico con un programma e corredare ciascuno dei sei movimenti con un titolo proprio – Pan si desta; Quello che mi dicono i fiori del campo, gli animali del bosco, l'uomo, le campane del mattino (gli angeli), Dio (l'amore) – e l'intera Sinfonia col titolo di La mia gaia scienza, con riferimento diretto a Nietzsche, un cui testo viene musicato nel quarto movimento, o di Sogno di una notte d'estate, salvo disconoscere l'influsso di Shakespeare. Ma già al momento della pubblicazione, nel 1898, ogni riferimento extramusicale era stato cassato. Al pubblico della prima esecuzione, tuttavia (Stadttheater di Krefeld, 9 giugno 1902), non servirono queste indicazioni per decretarne il pieno successo – uno dei pochi della vita compositiva di Mahler. È tuttavia fin troppo facile risalire, grazie anche alle testimonianze di Nathalie Bauer-Lechner, amica e confidente del compositore, e alle lettere ad Anna von Mildenburg, soprano cui Mahler era sentimentalmente legato in quegli anni, all'intenzione programmatica originaria: rappresentare musicalmente tutto il creato, partendo dallo stadio elementare degli elementi e risalendo via via una scala di complessità crescente, una gerarchia: una gerarchia che non si ferma con l'uomo, ma che prosegue con gli angeli e Dio.
A dar vita alla più lunga sinfonia della storia della musica (e sarebbe stata anche più lunga, se Mahler non avesse rimosso il previsto settimo movimento, riciclato poi come Finale della Quarta), è chiamato il bielorusso Vitali Alekseenok. Stando al suo nutrito palmares, la giovane età – classe 1991: giù il cappello, signori! – non gli ha impedito di scalare rapidamente vette direttoriali importanti e di vedersi assegnati riconoscimenti quali, per restare in Italia, il primo premio al IX concorso internazionale Arturo Toscanini (Parma, 2021). Partitura alla mano, l'esecuzione di venerdì 15 ha pienamente mantenuto ciò che i titoli sulla carta promettevano. Scaltritosi alla scuola di direttori e orchestre prestigiose, di cui molti versati nella musica tedesca (Haitink, Lyniv), Alekseenok offre una conduzione ferma, misurata, di ammirevole nitore, e si esime saggiamente dallo (s)cadere in fragori e decadentismi di cui pure potrebbe essere oggetto questa musica, e a cui la giovane età e il delirio di onnipotenza di manovrare un'orchestra massiccia (e di suonare Mahler) avrebbero del resto potuto offrire il destro, come in parte si temeva. Niente di tutto ciò. Il gesto direttoriale è specifico, quasi settorio, l'orchestra non sbanda mai sotto il suo controllo, e se proprio una pecca si deve trovare, risiede in questo grande rigore che forse toglie un po' di enfasi a una musica che di enfasi si nutre e che enfasi spande, soprattutto negli afflati dei tutti orchestrali.
Ma sbaglierebbe chi considerasse Mahler in grado soltanto di scatenare indomabili tempeste di suono. I passaggi intimi e quasi cameristici abbondano nelle sue opere, e nella Terza ve ne sono a profusione. Ed è proprio nel rendere questi che si esplica al meglio la cura del dettaglio di Alekseenok. Si prenda ad esempio lo sviluppo del primo movimento, nn 20-24 e 35-42, dove le dinamiche vanno dal p al pppp (!): è tutto un mormorio, un sussurro, un frusciare, un frinire, veri e propri Naturlaut resi con incomparabile maestria chiaroscurale e attenzione al dettato mahleriano: e che dolcezza in quelle poche battute di violoncelli (n.62), dove le forcelle di crescendo e diminuendo vengono rispettate alla lettera e il ppp morendo ti si imprime nell'anima! Simili momenti di raccoglimento e stupefazione si rilevano anche più avanti, nel terzo movimento, in cui addirittura le arpe (n.3) escono dal loro solito impiego di arabesco esornativo per farsi quasi tangibile linea melodica, e in cui i sospesi interventi della tromba fuori scena, con cui oggi si sostituisce il Post Horn voluto da Mahler, (n.13 e sgg.) galleggiano su impalpabili ppp degli archi, sorta di Jodel da remote regioni montane, o forse un loro ricordo in un sogno che sta per svanire.
Ottimamente resa anche l'atmosfera notturna, sacrale (Bruckner avrebbe usato il suo tanto amato binomio Feierlich, misterioso) del quarto movimento, dove il lungo pedale iniziale di violoncelli e contrabbassi in ppp e il La conclusivo in pppp sfiorano letteralmente il silenzio, e tutta l'orchestra si alleggerisce in un pulviscolo evanescente.
La ricerca timbrico-espressiva appare meno efficace nel secondo e nel quinto movimento, un po' più meccanici e un po' meno poetici. Ma il pieno riscatto è la delicatezza con cui sono interpretate le raffinatezze di strumentazione dell'Adagio conclusivo, in cui per almeno tutta la prima metà le dinamiche delle varie sezioni degli archi, ulteriormente suddivise al loro interno, più che stratificarsi si compenetrano come una sorta di alone sonoro, e non ci si trova più ad ascoltare un'orchestra: ci si trova a levitare sopra il mondo ad altezze vertiginose, in un'aereità vaporosa resa davvero splendidamente. Il pensiero è corso a Dante, quando dall'alto del Paradiso commisera il mondo, «tal ch'io sorrisi del suo vil sembiante». Ma qui il «sembiante» del mondo per Mahler non è vile: il mondo, anzi, viene ripercorso nella sua interezza e amato direi quasi dolorosamente, tanto che, quando i corni emergono richiamando l'incipit della Sinfonia in un sorta di alfa e omega conclusivo (nn. 19-20 e 22-24), il loro intervento suona qui davvero lancinante, preparato come è stato dalla delicatezza materna degli archi. E a motivo di tale delicatezza iniziale, la fulgida conclusione sopraggiunge con una forza pervasiva e dirompente, che riesce a frangere, almeno in chi scrive, la barriera della vera commozione.
Un'esecuzione così ben riuscita è anche merito dell'Orchestra del Teatro, sugli scudi per una prestazione di notevole livello per coesione interna delle singole sezioni – legni sempre fluidi e pungenti all'occorrenza, come il clarinetto in mi bemolle al terzo movimento o le volatine di flauto e ottavino al primo; ottoni nel complesso ben amalgamati, al netto di qualche trascurabile imprecisione, con buona intesa fra gli otto corni, nove con l'assistente, e tromboni e tuba belli fusi nel loro andamento marziale a inizio primo movimento; soprattutto, archi molto espressivi sia nei pianissimi, come riportato, sia nei passaggi di più ampio respiro – e per punte d'eccellenza di alcuni suoi specifici elementi: il primo violino di Valentina Benfenati e il primo trombone di Vincenzo Paratore, distintisi in assoli tanto precisi quanto penetranti e ricompensati giustamente da vivi applausi aL termine. Lievi sfocature per la tromba fuori scena di Giuseppe Spampinato nel terzo movimento, a difesa del quale è da dire che i lubrichi e perigliosi passi in ppp sul registro acuto (!) espongono il fianco a più di una défaillance (superba invece l'articolazione, i fiati e il portamento richiesto in partitura) e per l'oboe di Stefania Giusti nel quarto, su alcuni intervalli Fa-La (es. n.8).
Bene anche per Polina Shamaeva, contralto chiamata a interpretare O Mensch! di Nietzsche, dall'Also sprach Zarathustra, e l'anima penitente di Pietro in Es sungen drei Engel: voce densa, pastosa ed espressiva, dalla dizione chiara e intellegibile di un idioma che, non suo, padroneggia senza difficoltà.
Prova convincente anche per i due cori: il Coro del Teatro, limitato alla sola sezione femminile e istruito da Luigi Petrozziello, e il Coro di voci bianche InCanto, disposto scenograficamente nelle barcacce del secondo ordine del Teatro, a destra e a sinistra dell'orchestra e rialzato rispetto ad essa, in tal modo rispettando l'indicazione mahleriana che lo prescrive, assieme alle campane, In der Höhe postiert, posizionato in alto, sì da dare l'illusione che le voci angeliche discendano dall'Empireo (le campane sono state invece collocate nella barcaccia di sinistra al primo ordine, alla stessa altezza dell'orchestra, ma l'effetto è stato comunque assicurato). La loro lodevole preparazione, assicurata da Alessandra Lussi, ha permesso momenti di ottimo amalgama timbrico.
L'accoglienza del pubblico è stata calda ed entusiasta, con applausi alla fine di ciascun movimento. Mahler ha avuto un bel daffare a far perdere questa abitudine al pubblico viennese, quando divenne direttore della Hofoper: una sinfonia si segue col massimo silenzio, a luci spente (cosa che ha introdotto lui), senza giocare o flirtare nel frattempo, quasi in attonita e rispettosa genuflessione mentale. Ma niente da fare: la sua musica ha entusiasmato al punto che palchi e platea hanno così espresso il loro consenso: e come dar loro torto? Se il teatro è vivo, che si faccia sentire!
Christian Speranza
17/11/2024
Le foto del servizio sono di Giacomo Orlando.