Il senso di Gatti per la Mitteleuropa 
Daniele Gatti dimostra una spiccata sensibilità per il grande repertorio sinfonico mitteleuropeo, una inclinazione verso le più ardite e ambiziose strutture orchestrali mai concepite da essere umano. Il programma presentato all'Accademia di S. Cecilia, la presente recensione si riferisce alla serata conclusiva di sabato 17 maggio, ne è la dimostrazione lampante. La Nona di Bruckner è opera impervia, densa di significato, la cui complessità addita impossibili risoluzioni. Di tale forza Gatti è perfettamente consapevole. La sua lettura risalta per l'equilibrio architettonico, per la capacità di dipanare il complesso tessuto strumentale con analitica chiarezza. Ciò non è indice di una interpretazione algida, ma al contrario raggiunge esiti di pensosa profondità. Si pensi alle pause, a quei silenzi colmi di eloquenza disseminati ampiamente nella partitura; attimi in cui la pienezza di un mondo lascia spazio a una nuova creazione. Un universo instabile, in continuo divenire e per questo inafferrabile. Sfuggendo ogni retorica, il direttore ci mostra un Bruckner estremamente moderno, profeticamente presago dei futuri sviluppi della musica. La massa orchestrale utilizza materiali noti fondendoli in un qualcosa di nuovo, “una massa unitaria in perpetua gestazione” per citare Sergio Martinotti, autore di una pregevole monografia sul compositore austriaco. Il primo movimento apre il sipario su un panorama inquieto, percorso da una fremente drammaticità. Le epifanie autunnali degli archi non offrono appigli melodici consolatori, ma si fanno specchio del declino e dell'abbandono. Nello Scherzo, in odore di zolfo, Gatti accentua i ritmi tellurici rallentandone gli esordi, delineando una fantasmagoria luciferina di grande efficacia. Il colossale Adagio conclusivo, ricordiamo che la Sinfonia resta incompiuta e monca dell'ultimo tempo, apre squarci di trascendenza nel suo procedere incerto e frammentato, interrotto da frequenti divagazioni. Bruckner materializza lo stupore dell'uomo di fronte al mistero della morte. Aprivano la serata il Gesang der Parzen, ben eseguito ma a tratti non perfettamente a fuoco negli equilibri corali, e lo Schicksalslied di Brahms, quest'ultimo di grande temperatura drammatica. L'olimpica luminosità precipita rapidamente in terrifici abissi, mentre la meditazione sul destino si fa sempre più profonda. Qui la fusione fra l'elemento corale e l'orchestra, ai suoi massimi livelli, raggiunge esiti di grande impatto emotivo. Ovazione in sala per Gatti e per i complessi ceciliani. Riccardo Cenci
20/5/2025
La foto del servizio è di Riccardo Musacchio/MUSA.
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