Pittori, non solo fiamminghi 
Leoncavallo – anche se pochi lo ricordano – volle chiamare il suo capolavoro Pagliacci e non I pagliacci, esattamente come più tardi intitolerà un'altra opera Zingari, senza farla precedere dall'articolo: nell'uno e nell'altro caso voleva evidenziare, dei rispettivi protagonisti, non la professione o l'etnia, ma la loro peculiare condizione umana. Analogamente, quando Antonio Smareglia – nel 1928, ormai nominalmente conclusa la parabola di compositore – volle tornare sui propri passi revisionando il suo Cornill Schut, composto sette lustri prima, lo reintitolò Pittori fiamminghi: transito che sottintendeva non solo un'opera più corale e meno “individuale” rispetto alla stesura originaria, ma pure una drammaturgia sottratta alle pastoie delle contingenze storico-geografiche. Come a dire che quei personaggi appartengono, sì, a una stagione ben precisa (la pittura fiamminga della prima metà del Seicento), ma a Smareglia interessa essenzialmente il racconto dell'artista che palpita – o sonnecchia – in loro. Di Cornelis Schut (questo era il nome esatto) si trovano oggi solo fugaci tracce nei volumi di storia dell'arte. Tuttavia, scrivendo il libretto nel 1893, Luigi Illica volle tentare su di lui un'operazione non troppo dissimile a quella fatta da Donizetti per Torquato Tasso, da Berlioz per Benvenuto Cellini, da Wagner per Tannhäuser: una “drammatizzazione del genio”, in cui il corpo a corpo con la propria arte diventa soggetto drammaturgico. Resta poi indubitabile come la stella polare wagneriana fosse l'unica che, da bravo “musicista dell'avvenire”, stava a cuore a Smareglia (e il nuovo titolo suona come un omaggio a uno dei maggiori esponenti di tale musica, Franco Faccio, il cui sfortunato capolavoro fu I profughi fiamminghi); i richiami wagneriani, però, risultano evidenti sin dal testo di Illica, a cominciare dalla funzione salvifica della protagonista femminile, il cui nome – guarda caso – è Elisabetta: qui non angelo di riscatto spirituale come l'omologa del Tannhäuser, ma musa comunque trasumanante, che solo sacrificando l'amore terreno potrà approdare alla sua funzione demiurgica.
D'altronde vari tòpoi della cultura tedesca fanno capolino: come non pensare alla doppia coppia Faust-Margherita e Mefistofele-Marta, quando Cornill tenta di sedurre Elisabetta mentre il suo sodale distrae l'amica-governante della bella? In ciò Smareglia, nonostante gli slanci antipassatisti, resta un compositore romantico: il dramma del protagonista è quello della tensione irrisolta verso la gloria e dell'inaridimento dell'ispirazione, inteso come encefalogramma piatto per qualunque artista; laddove, già vent'anni prima del libretto di Illica, uno scrittore con la mente rivolta al Novecento che verrà come Henry James aveva invece mostrato – nel racconto La Madonna del futuro – come una tela vuota possa valere quanto il più celebrato Raffaello.
Smareglia sarebbe morto un anno dopo la première dei Pittori, mentre Illica – quando l'opera revisionata vide la luce – se n'era andato da un pezzo. Difficile dire se avrebbe apprezzato il rifacimento. Anzi, l'operazione messa in moto da Smareglia (risciacquare quell'antico libretto nelle acque simboliste che aveva iniziato a coltivare grazie ai testi scrittigli da Silvio Benco) sembra andare in una direzione opposta rispetto agli orizzonti che Illica, dopo Cornill Schut, volle prospettargli. L'opera successiva nata dalla collaborazione tra il musicista di Pola e il poeta di Castell'Arquato sarà infatti Nozze istriane: come a dire, una virata in quel verismo da Smareglia più tollerato che metabolizzato, e che resterà l'ultimo frutto del sodalizio fra i due.
Sta di fatto, però, che Pittori fiamminghi è andato ora in scena al Festival Illica di Castell'Arquato, spostando il focus sul drammaturgo piuttosto che sul compositore: una rassegna che esiste da vari anni, ma solo in questi ultimi tempi si è posta all'attenzione della critica anche internazionale, grazie al tentativo di affiancare gli immarcescibili testi scritti a quattro mani con Giacosa per Puccini (nei giorni precedenti si era vista Madama Butterfly) ad opere assai meno scontate come questa (e due anni fa toccò proprio a Nozze istriane). A fare da cornice, la suggestiva Piazza del Municipio di questo borgo medievale piacentino, con la torre del Palazzo Pretorio che già di per sé è un elemento scenografico: uno spazio che in passato ha fruttuosamente consentito rappresentazioni in forma semiscenica, ma che non soffre nemmeno – com'è avvenuto ora – le limitazioni di un'esecuzione puramente concertistica, dato il fascino della location.
Jacopo Brusa, pure direttore artistico del festival, è un concertatore scrupoloso, che ricava il meglio dall'Orchestra Filarmonica Italiana – il tessuto contrappuntistico della partitura viene dipanato con la dovuta chiarezza – e ottiene ciò che è possibile da un complesso nato ad hoc come il Coro del Festival Illica. Ben sostenuti anche i cantanti, per quanto il transito dallo Smareglia ancora schiettamente operistico di Cornill Schut a quello propenso a un linguaggio sinfonico-vocale sia la cifra più distintiva della revisione operata nei Pittori fiamminghi. Sotto quest'aspetto, il limite del protagonista Marco Miglietta (un tenore che fino ad oggi è stato innanzi tutto un eccellente caratterista, e ora sta ampliando i propri orizzonti) è forse proprio quello di aggredire “operisticamente” – e veristicamente – la linea di canto, a costo di attacchi talvolta imprecisi (ma l'intonazione via via si assesta) e con un temperamento che non sempre rende giustizia all'introversione della scrittura canora.
I due soprani (l'uno più lirico e l'altro più drammatico, secondo il noto schema pucciniano, anche se qui è quello di complessione vocale più leggera ad agire da protagonista) hanno trovato in Clarissa Costanzo un'Elisabetta dolce e poetica, dalla voce forse più in consonanza con quel clarinetto che ne esprime la spiritualità piuttosto che con quell'oboe chiamato a illustrare il dualismo fra tensioni immateriali e afflato amoroso. Meno fresca ma più matura l'altra cantante, Daria Masiero, capace di conferire spessore deuteragonistico a un personaggio che Smareglia approfondisce poco e Illica abbozza soltanto. Più scavato il ruolo del contralto (l'amica fedele e non più giovane), la cui bella aria del secondo atto viene affrontata da Giovanna Lanza con giusta sensibilità interpretativa, affiancata da una certa stanchezza vocale.
Il personaggio – anch'esso realmente esistito – di Frans Hals, il vecchio maestro che vuole pilotare l'ispirazione dell'allievo senza rispettarne la personalità, non è stato forse restituito in tutte le sue sfumature dal basso Giacomo Pieracci. Mentre alle prese con il pittore che ha preferito sacrificare l'arte alla bottiglia, Francesco La Gattuta si rivela baritono “di mezzo carattere” morbido e conversativo, oltre che brioso nella sua ballata.
Paolo Patrizi
22/7/2025
La foto del servizio è di Paolo Mazzoni.
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