Un naufragio esistenziale e collettivo
L'Abisso di Davide Enia
In un mare magnum di informazione, reportage, resoconti di viaggio e narrativa varia dominati da un assoluto quanto indifferenziato e dolciastro buonismo nei confronti dell'immigrazione, buonismo che riduce una tragedia umana che si consuma su barconi, carrette del mare, con protagonisti poveri disgraziati in cerca di un futuro migliore e squallidi personaggi come gli scafisti, perfettamente assimilabili ai negrieri e ai commercianti di schiavi di un tempo, ad argomento buono per i talk-show, per i ricevimenti dei radical-chic e per la propaganda elettorale, di destra o di sinistra fa poca differenza, desta non poca sorpresa un lavoro teatrale che riesce a descrivere con obiettività fredda e misurata la meccanica dei salvataggi in mare, la lotta dell'uomo con gli elementi, tramutando questa lotta, sempre impari, nel simbolo e nella metafora di una battaglia individuale che spesso si conclude con una sconfitta.
Eppure ne L'Abisso di Davide Enia, in scena al Piccolo Teatro di Catania l'1 e il 2 dicembre dopo i successi di Roma e Palermo, c'è tutto questo: c'è la descrizione quasi cinematografica della battaglia tra l'uomo e il mare, ci sono le immagini di un mare che brulica di esseri umani, le reti dei pescatori che tirano su non solo triglie, calamari e sarachi ma anche corpi e brandelli umani, ma di converso c'è anche il sommozzatore che spiega la dinamica del suo lavoro, la logica matematicamente crudele che impone di buttarsi là dove ci sono tre e non due persone in acqua, perché conta solo il numero, ci sono i pescatori che ributtano in mare i cadaveri perché riportarli a riva significa tenere la barca ferma per un mese a disposizione delle indagini, e con la barca ferma un mese un pescatore non lavora e non mangia… C'è tutto un mondo insomma che viene indagato a prescindere dalla nazionalità dei migranti, dalla loro religione, ignorando programmaticamente tutti gli elementi ontici di una tragedia che trascende gli esseri umani e che, a ben vedere, non è altro che la riedizione su scala mondiale dell'unica possibile tragedia della storia: la sopraffazione dell'uomo sull'uomo.
E questo naufragio, marino ed esistenziale, contraltare tragico del nostos di Odisseo, si lega a un naufragio tutto individuale, la morte di un parente, morte che viene vissuta come un naufragio da parte del padre del protagonista, un medico, per il quale ogni morte è una sconfitta, né più né meno che per l'uomo che in mare non riesce a salvare il proprio simile.
Una pièce intensa, secca, dove il piano individuale e quello collettivo si intersecano continuamente, ma tutto senza un aggancio storico particolare, senza soffermarsi mai su un fatto di cronaca: è il mare con la sua furia il vero protagonista, il vero motore di uno scontro che dall'epoca omerica non si è mai placata, continuando a seminare morte, sofferenza, torture, sopraffazioni e ingiustizie.
Davide Enia, qui nella doppia veste di autore e attore, ha tratto L'Abisso dal suo Appunti per un naufragio, edito da Sellerio e vincitore nel 2018 del Premio Mondello, dove racconta l'esperienza sul campo degli sbarchi a Lampedusa, il contatto diretto con i migranti ma anche con gli uomini delle navi addette ai salvataggi, con i volontari dell'isola: da qui l'esigenza teatrale dell'utilizzo del dialetto, che rende più immediati i racconti dei sommozzatori e dei pescatori, e di una dizione volutamente sporca che infonde al narrato un'immediatezza colloquiale particolarmente coinvolgente, immediatezza alla quale nulla tolgono le musiche composte da Giulio Barocchieri ed eseguite dal vivo dall'autore, rivelandosi anzi un momento di necessaria riflessione, quasi una presa d'aria dopo una lunga immersione.
Giuliana Cutore
3/12/2018
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