RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Il canto del postiglione

Benché passato alla storia della musica come uno dei padri del balletto romantico (grazie a Giselle, naturalmente), l'Adolphe Adam operista è quanto di più leggero, evasivo e parodistico – insomma, alla resa dei conti, antiromantico – possa immaginarsi. Tecnico solidissimo, acuto teorico, Adam conobbe innanzi tutto l'arte di non prendersi sul serio: i modelli “alti” li aveva assimilati a dovere, ma per restituirli in chiave demistificatoria e disimpegnata: con una disponibilità verso il genere “basso” che sancì il travalicamento dalla vecchia opéra-comique (tuttora ancorata a schemi patetici e romanzeschi) a un'opéra-bouffe allo stato di comicità quintessenziata, dove le parti recitate hanno un peso non inferiore a quelle cantate. Dunque, quanto a scelta dei libretti, soggetti fragili fino alla vacuità, ma baciati dalla musa dell'assurdo (non a caso il gettonatissimo Scribe restò ai margini delle collaborazioni di Adam); e congegni antipsicologici che scantonano in una pochade immemore del realismo della farsa.

Il successo in terra di Germania di una partitura come Le Postillon de Lonjumeau nasce, forse, proprio da qui: concettuale e concettoso, lo spirito tedesco parrebbe – ed è – quanto di più lontano dalla smagata frivolezza di queste operine, ma ogni popolo intelligente resta affascinato da ciò che risulta estraneo alle proprie corde. Sta di fatto che il postiglione canterino trasformato da un capriccio della sorte in divo della Versailles di Luigi XV, e modellato da Adam su una vocalità tanto “di grazia” (nell'emissione) quanto stratosferica (nel registro sopracuto), fu cavallo di battaglia per molti fra i maggiori tenori tedeschi del secolo scorso: da Joseph Schmidt a Peter Anders, da Roswaenge a Haefliger. Un arco, dunque, piuttosto eterogeneo di voci, che lascia intuire una certa discrezionalità stilistica nell'affrontare l'improba scrittura di Adam (pura voce di testa o suoni misti? Un penetrante falsetto o un falsettone rinforzato da sonorità di petto?). Il fatto che a tutt'oggi l'interprete più paradigmatico del postiglione Chapelou, poi tenore-mattatore Saint-Phar, resti – nella memoria discografica – Nicolai Gedda farebbe optare per la prima ipotesi; mentre la fugace renaissance che il personaggio, pochi anni fa, ha avuto grazie a Michael Spyres sembrerebbe far pendere l'ago della bilancia verso un postiglione dai suoni più robusti e virili.

Nel riprendere la tradizione tedesca del Postillon, lo spettacolo appena andato in scena all'Opera di Francoforte tende comunque a eludere la questione in favore di altre polarità: avendo a disposizione un cast spigliato e corretto, ma senza autentici fuoriclasse, punta sulla valorizzazione della scrittura strumentale e su certe sollecitazioni nascoste della drammaturgia. Il direttore Beomseok Yi recupera la dimensione “danzante” della partitura – le sue rapinosità ritmiche, e pure talune increspature coloristiche utili ad Adam nel delineare un'ambientazione cangiante – senza trascurare, al tempo stesso, la “cantabilità” dell'orchestra: esito raggiunto grazie a una compagine di estrema duttilità come la Frankfurter Opern und Museumorchester. Estremamente malleabile è poi il coro, di notevole plasticità anche sul fronte scenico; ma qui entrano in gioco i meriti della regia.

Hans Walter Richter impagina una vicenda diluita nel tempo e nello spazio (si passa dal villaggio iniziale alla Parigi del prosieguo della storia, e dieci anni dividono il primo atto dai due successivi) ricompattandola però sul piano visivo, grazie alla scatola scenica ruotante di Kaspar Glarner; e anche i due lustri su cui si spalma l'azione danno l'idea di un mero gioco teatrale, dato che il regista sceglie di rappresentare primo e secondo atto senza soluzione di continuità. Il côté storico resta invece ben presente, sia pure in chiave parodistica: gli artifici del melodramma barocco – l'opera che il protagonista deve cantare a Versailles è Castor et Pollux di Rameau – vengono snocciolati con garbo e ironia (costumi, e accessori vari, spiritosissimi a firma dello stesso Glarner); mentre Luigi XV, che nel libretto è solo un'ingombrante assenza, qui si trasforma in un personaggio in carne e ossa grazie a dialoghi aggiunti ad hoc (lode alla ridicola albagia dell'attore Wolfgang Gerold). Assai validi infine gli innesti coreografici, funzionali alla lettura ritmicamente incalzante del direttore: ne è responsabile l'attore-danzatore Gabriel Wanka, che si riserva il personaggio – solo recitato – della cameriera Rose, qui spassosamente trasformata in fantesca en travesti .

I meno a fuoco, paradossalmente, finiscono con l'essere proprio i cantanti: Francesco De Muro ha tutte le note – comprese le più siderali – del postiglione eponimo, ma non la capacità di renderle sempre gradevoli all'orecchio; Monika Buczkowska-Ward, in un ruolo dove il virtuosismo significa soprattutto trasformismo vocale, è più precisa che scatenata. Hanno comunque la freschezza richiesta dai loro personaggi, così come i bassi Joel Allison e Morgan Andrew King (“comico” il primo, “spalla” il secondo) formano una simpatica coppia di cialtroni. Frenetico in scena ma piuttosto defilato vocalmente il baritono Jarrett Porter, nei panni del faccendiere Marchese de Corcy: il classico vilain operettistico.

Paolo Patrizi

12/3/2025

La foto del servizio è di Barbara Aumüller.