Sicilia-Irlanda, andata e ritorno
Adelson e Salvini al Teatro Pergolesi di Jesi
Il genio in embrione nel suo laboratorio. Se Rossini a ventiquattro anni aveva già snocciolato Tancredi, Italiana e Barbiere, Bellini alla stessa età muoveva i primi passi: sicché Adelson e Salvini – concepita, nella sua prima stesura del 1825, come saggio di conservatorio e affidata all'esecuzione protoprofessionistica, se non amatoriale, degli allievi – è il frutto di un apprentissage fedele a rossinismi di facciata (ma davvero solo quella) e incanalato nel modello d'oltralpe del melodramma con ampi stralci non musicati, di pura recitazione. Un esperimento insomma, a mezza strada tra il romanzesco e il larmoyant, il semiserio e l'opéra comique, dove l'ambientazione irlandese è tanto geograficamente vaga quanto drammaturgicamente pretestuosa: in attesa che Bellini trovi la propria strada e si affranchi da griglie che al suo genio andranno strette. Quando un paio d'anni dopo, a ferri del mestiere ormai affinati, ne tenterà un rifacimento (ridimensionando i siparietti d'indole più comica e cassando i dialoghi parlati), i risultati non saranno molto più probanti, mentre il profumo sperimentale dell'esordio sembrerà svaporato.
Un laboratorio, dunque: con una semina di cui si gioveranno altri autori (la figura del napoletano trapiantato in terra britannica, ma che continua a esprimersi in vernacolo, verrà ripresa con miglior costrutto da Donizetti in Emilia di Liverpool) e poche ma inequivocabili coordinate destinate a caratterizzare il Bellini prossimo venturo, a cominciare da un tenore insieme “maledetto” e “angelicato” che, con ben altri esiti, ritroveremo nel Pirata. E proprio un laboratorio mette in scena, a Jesi, il regista Roberto Recchia, nella riproposta della versione originaria: un atelier di pittore che non solo è immediato riferimento al mestiere di Salvini – irrequieto maestro italiano dell'arte del dipingere, che con il suo servo partenopeo sceglie la via d'un metaforico esilio presso l'amico irlandese Adelson – ma pure parafrasi di quell'officina che, per il giovane Bellini, furono i suoi anni di conservatorio napoletano e il teatrino del Real Collegio, dove il lavoro ebbe battesimo.
Ben coadiuvato dalle scene di Benito Leonori (che fa delle tele di Salvini l'elemento scenografico portante) e dai costumi di Catherine Buyse Dian (anch'essi di forte valenza pittorica), il regista impagina uno spettacolo di notevole eleganza visiva ma tutt'altro che circoscritto alla dimensione estetizzante, dove chiarezza della narrazione e fedeltà al libretto convivono con una lettura più concettuale: l'Irlanda non come esotico “altrove”, ma isolamento derivante, appunto, dalla sua natura di isola, speculare a quell'altra isola (la Sicilia) da dove Bellini proveniva e dalla quale dovette affrancarsi per spiccare il volo; la natura febbrile e irrisolta di Salvini espressa nelle sue tele tutte incompiute; l'Italia, patria del pittore e del suo servo, intesa come presenza-assenza ben più incisiva del côté britannico, incarnato da personaggi – a cominciare dal coprotagonista Adelson, non a caso privo di una sua aria – scoloriti o formalisti.
In una scrittura vocale all'insegna della più omogenea medietas (tutti mezzosoprani le donne, tutti baritoni o bassibaritoni gli uomini, protagonista escluso) emerge a maggior ragione la svettante tenorilità di Salvini, il suo belliniano inerpicarsi sulle alte vette del pentagramma non senza qualche affondo virtuosistico, la sua Wertherfieber – l'antieroe goethiano e il suo amore impossibile restavano un muro maestro per l'immaginario collettivo di quegli anni – che lo fa trascolorare dal patetismo a un pathos protoromantico, sancendo implicitamente l'affrancamento da modelli rossiniani: peccato che un'indisposizione, la sera della “prima”, abbia impedito a Merto Sungu una raffigurazione completa in ogni dettaglio, ma il personaggio si è profilato con chiarezza.
Alle prese con caratteri più stilizzati (l'amico generoso, il servo scaltro, il cattivo senza sfumature…) gli altri si fanno onore: stupisce l'ottima pronuncia italiana, anche nei lunghi inserti parlati, del russo Rodion Pogossov (un baritono “di linea” corretto e un po' blasé, come si conviene ad Adelson) e del kazako Baurzhan Anderzhanov, che sa rendere la monodimensionalità del suo ruolo malvagio senza scantonare nella monotonia. Mentre Clemente Antonio Daliotti, nonostante un vuoto di memoria durante la sua seconda aria, ha dato fraseggio saporoso e spessore timbrico al servitore Bonifacio Voccafrolla: in fondo il vero coprotagonista dell'opera.
Tra le interpreti femminili s'impone la vocalità di Giovanna Lanza, in un ruolo – caricaturale nel libretto, ma sostanzialmente “serio” quanto a complessione canora – da megera di bon ton. Comune oggetto di desiderio dei due amici, ma ineluttabilmente destinata ad Adelson, l'orfana Nelly si è giovata dell'aggraziata musicalità di Cecilia Molinari. Dal podio, José Miguel Perez Sierra sottolinea forse fin troppo le ascendenze rossiniane (a cominciare dalla sinfonia) a scapito del nuovo che avanza, all'interno di una lettura comunque equilibrata e scorrevole.
Paolo Patrizi
16/11/2016
La foto del servizio è di Stefano Binci.
Giuseppe Perrotta
Recita un'antica sentenza: «Padre Modesto non diventò mai Priore», intendendo con ciò che timidezza e riservatezza, se eccessive e paralizzanti bloccano e impediscono ogni realizzazione pratica ed ogni azione umana. Forse nessuna sentenza è mai stata più pertinente e adatta alla vita e all'opera di colui che fu certo uno dei musicisti più sfortunati della nostra terra e che risponde al nome di Giuseppe Perrotta. Nato a Catania, in via Garibaldi, il 19 marzo del 1843 dall'avvocato Emanuele Perrotta e da Giuseppa Musumeci, il giovane futuro compositore si dedicava alla musica per diletto (la sua formazione fu da autodidatta) e anche per passione, ma per non deludere le aspettative paterne, come tanti figli ubbidienti di quell'epoca, si dedicò agli studi giuridici, laureandosi in legge presso l'Università etnea nel 1862. Nello stesso anno convolerà a nozze con Antonina Ardizzoni Carbonaro, che gli darà due figli. Il suo carattere schivo ed il suo stato di giovane padre di famiglia gli impediranno di viaggiare, a differenza degli amici artisti e letterati suoi conterranei Giovanni Verga, Luigi Capuana, Federico De Roberto, Mario Rapisardi, Francesco Paolo Frontini e soprattutto di promuovere, caldeggiare e divulgare le sue composizioni. Si recò solo una volta a Milano nel 1879, su sollecitazione di Verga e Capuana, ma nonostante le calorose accoglienze ricevute dal mondo musicale ambrosiano ritornò subito nella sua città. In seguito Perrotta rimase vedovo, cosa che presumibilmente gli provocò uno stato di profonda tristezza e depressione. Pertanto si ritirò gli ultimi anni della vita nel suo villino di Cibali con i figli e la madre, abbandonando la composizione musicale e morendo suicida nel 1910. Il musicista catanese diede vita a tre opere liriche: Bianca di Lara su libretto di Stefano Interdonato; Il trionfo dell'amore su testo originale dell'omonima fiaba in versi di Giuseppe Giacosa; Il conte Yanno su libretto di Ugo Fleres. Nessuna di queste partiture fu mai rappresentata e certamente anche in questo caso il carattere ostico, poco comunicativo ed austero del musicista avrà avuto il suo peso, assieme certo alla non eccezionale valenza artistica delle opere. Il suo grande e solerte amico Giovanni Verga lo incaricò, certo per aiutarlo e incoraggiarlo, un preludio per piccola orchestra da anteporre al dramma «Cavalleria Rusticana» che andava in scena a Milano, ma la partitura, giudicata di difficile comprensione, venne scartata. Tuttavia l'anno seguente venne riproposta all'arena Pacini di Catania, esattamente il 29 luglio del 1886, ottenendo un buon successo di pubblico e di critica, così come riporta ed evidenzia il Corriere di Catania dell'epoca. Il musicista fu anche autore di musiche da camera, pianistica e vocale.
Il periodico di cultura siciliana «Agorà» ha voluto commemorare alla fine di questo 2010 il centenario della morte del compositore etneo offrendo ai suoi lettori in allegato alla rivista n. 35 un volume biografico ed un CD di sue musiche al prezzo davvero popolare di Euro 7,50. Il libro scritto con estrema cura e perizia da Elio Miccichè si rivela quanto mai esaustivo riguardo non solo la vita e le opere del Perrotta ma anche del milieu artistico e culturale col quale interagì. Il testo si avvale anche di una illuminante prefazione di Roberto Carnevale, il quale coglie acutamente nelle creazioni del «Solitario di Cibali» ascendenze ed arditezze armoniche tipicamente wagneriane. Un ricco apparato epistolare, fotografico ed iconografico, nonché una veste tipografica elegante, rendono la pubblicazione degna di stare nella biblioteca di ogni storico della musica ed appassionato di storia patria.
Il CD contiene 6 Romanze per voce e pianoforte: «Aura», «Gentile», «Idol mio», «Abbandonata», «O fior della pensosa sera» «Cuor morto», «La luna dal rotondo volto», eseguite egregiamente dal soprano Stefania Pistone, accompagnata al pianoforte dalla brava Alessandro Toscano. I pezzi per pianoforte solo: «Ouverture per Cavalleria Rusticana», «Preludio dallo Stabat Mater di Pergolesi», «Preludio in mi bemolle maggiore da Otium», e «Barcarola n. 3 senza parole» sono eseguite con garbo e buon gusto da Mario Spinnicchia.
Giovanni Pasqualino
13/2/2011
|