Adina
al Rossini Opera Festival
La seconda opera dell'odierno Rossini Opera Festival è stata Adina, farsa in un atto, che risulta essere lo spartito più misterioso del compositore pesarese. Anche se composta negli anni della maturità, Adina resta un'opera oscura nella sua genesi. Infatti, solo da pochi anni si conoscono le date e i modi della commissione, ma continuano a essere ignoti la genesi del libretto, il luogo e il tempo della composizione, e il nome della cantante cui era destinata la parte principale. Inoltre, è oscura anche la motivazione per cui l'opera rimase ineseguita a Lisbona nel 1818, e perché fu rappresentata solo il 16 giugno 1826, ben otto anni più tardi. Le continue ricerche hanno portato alla luce alcuni elementi ma non tutte le domande hanno avuto una risposta. Rossini, probabilmente per mancanza di tempo, aveva seguito il sistema a lui consueto di riutilizzare brani di opere precedenti non più in circolazione e sono stati riconosciuti tre pezzi provenienti dal Sigismondo, mentre di altri brani si aveva il dubbio che non fossero scritti per l'opera e addirittura che non fossero di Rossini. Lo spartito, custudito alla Fondazione Rossini di Pesaro, si può chiamare autografo solo per comodità, infatti alla stesura hanno partecipato non meno di cinque persone diverse, alcuni semplici copisti, altri veri e propri collaboratori. Di sicuro Rossini scrisse di proprio pugno i n. 1, 7 e 9 e la parte sostanziale del n. 2, tutto il resto è identificabile in non meglio precisati autori e imprestiti ignoti. Fabrizio Dalla Seta, autore dell'edizione critica, ci spiega nel dettaglio tutti i passaggi di questa intricata vicenda in un saggio pubblicato nel programma di sala. Si tratta sicuramente di un Rossini minore ma sempre di grande efficacia e molto godibile sia musicalmente sia teatralmente. La vicenda è abbastanza semplice e poco originale: la giovane Adina, prigioniera nel serraglio del Califo, dovrebbe sposare lo stesso ma l'arrivo del precedente fidanzato Selimo fa rinascere il sentimento tra i due e scoppia la collera del Califo, il quale condanna a morte Selimo. La tragedia è inevitabile, sennonché il Califo scopre di essere il padre di Adina, pertanto liberazione di Selimo, matrimonio con la protagonista e tutti vissero felici e contenti.
Con una trama simile pensare a una regia è cosa ardua, ma Rosetta Cucchi trova la soluzione nel riderci sopra in maniera ironica e quasi surreale. Domina la scena una gigantesca e coloratissima torta nuziale, mano felice di Tiziano Santi (anche se non originalissima poiché simile a uno spettacolo rossiniano del Met), nella quale trovano posto le stanze del Califo, uomo molto elegante che veste sia tradizionalmente sia all'europea, e la prigione dorata della protagonista sempre attorniata da due ancelle. I soldati sembrano degli svitati briganti con tanto di mitra, come quelli di “Totò Peppino e i fuorilegge”, servi, cuochi, cortigiani e chi più ne ha ne metta, in un'allegoria quasi felliniana o fantozziana, senza Paolo Villaggio, con la divertente idea di realizzare la coppia di sposi che solitamente andava sulle torte nunziali, che in quest'occasione fanno il verso a Barbie e Ken. Si ride, ci si diverte molto, in continue controscene allegoriche, che talvolta distraggono, ma sono ben realizzate. La Cucchi trova un efficace disegno senza mai essere invasiva nella recitazione ma consapevole di un disegno ironico che ha realizzato alla perfezione e in maniera molto più teatrale di altre occasioni. Il tutto è impreziosito dai bellissimi e coloratissimi costumi di Claudia Pernigotti e dall'ottimo disegno luci di Daniele Naldi.
Prova decorosa, ma senza brillantezza, quella dell'Orchestra Sinfonica Rossini, più efficace il Coro della Fortuna M. Agostini di Fano istruito da Mirca Rosciani, che oltre alla buona professionalità partecipa attivamente al disegno registico con disinvoltura ecomiabile. Sul podio il giovane Diego Matheuz, debuttante al Rof, che preferisce una lettura con tempi precisi e nitidi, controllando e calibrando con mestiere buca e palcoscenico, ma senza quella vitale brillantezza che contraddistingue lo spartito, accelerati, rubati, strette tipiche del mondo rossiniano.
Molto buono il cast, capeggiato dalla protagonista di Lisette Oropesa, la quale sfoggia un timbro non sempre rifinito e qualche asprezza in acuto, ma il canto è forbito, con un virtuosismo ragguardevole e molto variato cui è doveroso sommare una recitazione brillante. Vito Priante, Califo, sfoggia la consueta professionalità nello stile del fraseggio e del colore vocale, e anche se non basso vero e proprio trova particolare disposizione in un canto levigato e preciso attraverso uno stile impeccabile anche nella coloratura. Levy Sekgapane, Selimo, ha voce biancastra ma sa usare la coloratura egregiamente e il settore acuto è puntuale, mentre nel recitativo e sul piano interpretativo mancano ancora dei passi da compiere.
Nelle parti minori si mette in luce il giovane Davide Giangregorio, Mustafà, brillante personaggio e ottimo cantante, mentre Matteo Macchioni, Alì, ottiene l'applauso più caloroso della serata perché fa il verso all'eunuco gay con tanto di calze a rete, non certo per l'esecuzione dell'aria da sorbetto meccanica e poco rifinita.
Successo entusiastico al termine con numerose chiamate da parte del pubblico che gremiva il Teatro Rossini in ogni ordine di posto.
Lukas Franceschini
21/8/2018
Le foto del servizio sono dello studio Amati Bacciardi di Pesaro.
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