Quando anche l'interprete...
Vi è un motivo storico che lega il Concerto per violoncello e orchestra in la minore Op.129 di Robert Schumann, presentato a inizio aprile dall'Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai (OSN) con Mario Brunello solista, e il Concerto per violoncello e orchestra n°2 in sol maggiore Op.126 di Dmitrij Dmitrevic Šostakovic circa un mese dopo, giovedì 3 maggio 2018, con replica venerdì 4, sempre all'auditorium Arturo Toscanini di Torino, solista Enrico Dindo, direttore Marc Albrecht: ed è che il Concerto schumanniano è stato riorchestrato da parte di Šostakovic e pubblicato nel 1963 come Op.125. E tre anni dopo, nel 1966, lo stesso Šostakovic torna sul violoncello scrivendo l'Op.126 e dedicandola, come l'Op.107 del 1959, all'amico Mstislav Rostropovic. Ma è soprattutto quello stile profondamente introspettivo, cupo, a tratti allucinatorio, quella ricerca di una voce alla quale affidare le proprie riflessioni quasi in forma di diario privato (nel caso di Šostakovic sorte probabilmente in seguito alla scomparsa dell'amica poetessa Anna Achmatova, morta proprio nel 1966), con l'orchestra che fa loro da culla e da cassa di risonanza, a legarli. Non è un caso che dall'organico siano stati esclusi gli strumenti più squillanti, le trombe, e i più poderosi, i tromboni. Da Schumann Šostakovic eredita un andamento rapsodico, con una scansione anticonvenzionale dei tempi – Largo; Allegretto; Allegretto – e una struttura ben diversa dalla forma-sonata d'impianto classico. Il lavoro, d'altra parte, non punta a mettere in luce le doti di virtuoso dell'interprete, quanto quelle di scavo psicologico e di espressività.
Enrico Dindo (ri)dà egregiamente vita a questa composizione di non facile ascolto, che ha bisogno di essere interiorizzata, prima che esteriorizzata, dall'esecutore e dall'ascoltatore, proprio calandosi in questa visione di scavo psicologico (quando anche l'esecutore fa la differenza): il suono del suo violoncello è caldo e penetrante nel grave, sofferente e straziato nell'acuto, sempre e comunque comunicativo; suoni vibrati e tenuti, tecnica sopraffina, fraseggio e arcate definite e ben evidenziabili come frasi di un discorso, espressività da vendere: tutto concorre a fare della sua esecuzione una delle migliori cui si sia assistito. Il trasporto di Dindo è evidente, si sente il suo coinvolgimento, anche emotivo, nel suonare questa musica inquieta e inquietante (quando mai Šostakovic non è inquieto e inquietante?), che riesce a trascinare il pubblico in lunghi applausi e ripetuti richiami sul palco. Al termine, Dindo si produce in ben tre fuori programma, tutti dalle Suites per violoncello solo di Johann Sebastian Bach, la Bibbia dei violoncellisti («Se dovessi pensare alla musica come a una religione, allora queste sei Suites sarebbero la Bibbia»: Mischa Maisky): l'Allemanda dalla Suite n°6 in re maggiore BWV1012, il Preludio e l'Allemanda dalla Suite n°1 in sol maggiore BWV1007.
La direzione di Albrecht è parimenti di elevato grado artistico, riuscendo a dare la giusta drammaticità a tutto ciò che si muove attorno al solista; particolarmente apprezzati gli interventi dei fiati nell'acuto, lazzi incandescenti come lapilli, la coesione degli archi gravi a sostegno del violoncello e la precisione metronomica delle percussioni, chiamate in causa con sempre maggiore insistenza fino all'enigmatica conclusione, per quanto una maggior attenzione alle sfumature e alle mezze tinte non sarebbe guastata.
A mettere in risalto le qualità della sua direzione ci pensa la seconda parte del progamma, tutta wagneriana: il Preludio e morte di Isotta, l'Ouverture e il Baccanale del Tannhäuser e il Preludio al primo atto dei Meistersinger von Nürnberg.
Il primo brano nasce come operazione di taglia e cuci di due frammenti del Tristan und Isolde, unendo il Preludio alle battute finali, il famosissimo Liebestod, la morte d'amore di Isotta: operazione esplicitamente voluta da Wagner nel 1863 per formire al pubblico una chiave di lettura più agevole di quest'opera musicalmente difficile, nata per sublimare l'amore vietato tra il compositore e Mathilde Wesendonk.
L'Ouverture e il Baccanale costituiscono invece le due pagine d'apertura, saldate senza cesure, del Tannhäuser, opera che anticipa già (è del 1845) il tema della tenzone poetica ripreso poi nei Meistersinger (sebbene in altro contesto) vent'anni dopo. Subito dopo l'Ouverture, infatti, la musica prosegue fondendosi con quella del balletto delle Naiadi, delle Ninfe e delle Baccanti nella grotta di Venere, che dà avvio all'opera.
Il Preludio al primo atto dei Meistersinger von Nürnberg, opera che cronologicamente segue a ruota il Tristan (1862-67), è un capolavoro di maestosità e intreccio polifonico, talmente impegnativo, da costringere l'autore a una pausa di qualche anno (!).
Come in ogni sinfonia d'apertura operistica wagneriana, sono presenti in un pot-pourri, i temi centrali delle opere, in modo da preparare il pubblico al loro ritorno nei vari momenti della rappresentazione.
Tre brani per i quali la tenuta della nutrita orchestra che richiedono è fondamentale. Albrecht dimostra di saper affrontare il repertorio in modo saldo e sicuro, ma qualche appunto è doveroso. Si sarebbe voluta sentire più gravitas, più marcati i Leitmotive nascosti nella partitura del Preludio del Tristan (anch'esso pieno di insidie cromatiche, dissonanze rasentanti la cacofonia, se non ben calibrate) e più meditativa lentezza nell'attacco (per quanto non sia mai diretto abbastanza lentamente), come pure nel corale introduttivo e in tutta la prima parte dell' Ouverture del Tannhäuser, nella quale si nota una certa corrività poco giustificabile, per quanto nel complesso si tratti di esecuzioni prossime all'inappuntabilità: il Preludio dei Meistersinger è forse la pagina meglio riuscita, sapendo combinare sapientemente grandiosità e dinamismo: normalmente, dove abbonda una, deficita l'altro e viceversa; non nel caso in cui si sappia dosarli a dovere, considerando la natura del brano, come Albrecht si dimostra capace di fare.
Christian Speranza
17/5/2018
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