Frei und Tod
Monumento industriale e centro culturale, la Jahrhunderthalle di Bochum – sito privilegiato degli eventi della Ruhrtriennale – è uno di quei luoghi che fanno la felicità di ogni uomo teatro, e dunque pure di musica, che ami lavorare sugli spazi: ex capannone del distretto minerario della Ruhr riconvertito in sala polivalente, è destinato a spettacoli che inevitabilmente nascono e muoiono in situ (impossibile esportarli su un palcoscenico “normale”), ma restano nella mente e nel cuore di chi li ha visti e – c'è da scommetterci – di ogni artista che vi ha preso parte. Nella fattispecie, un regista di autentico spessore internazionale (e, in quanto tale, non popolare in Italia) come Johan Simons, attuale direttore artistico della triennale, e un direttore-filologo, ma anche uomo di teatro autentico, come René Jacobs: i quali, affiancati da un team di vaglia in ogni settore (la costumista Greta Goiris; il pluripremiato baritono Georg Nigl,“Cantante dell'anno” in Germania nel 2015; gli straordinari coristi-attori del complesso MusicAeterna, oggi conteso dai registi non meno che dai direttori), hanno dato vita a un' Alceste risolutiva per una rinnovata percezione della drammaturgia di Gluck non meno dello storico Orfeo ed Euridice di Pina Bausch.
Infatti, al di là delle dichiarazioni programmatiche apposte nella prefazione a quest'opera («ristringer la Musica al suo vero ufficio di servire la Poesia», evitare i «superflui ornamenti»…), in cosa consiste la cosiddetta riforma gluckiana? Nella coerenza della struttura, in simmetrie sensibili più alla fissità della tragedia che alla mobilità del dramma, in un razionalismo che non intiepidisce le emozioni ma le inquadra in una cornice d'ordine. Sotto tali aspetti, l'Alceste profilata da Jacobs e Simons è eloquentissima. Il direttore ottiene sonorità “moderne” – quanto ad appagamento fonico – da strumenti antichi (non a caso l'ensemble si chiama B'Rock Orchestra), con un equilibrio tra propulsione drammatica e abbandono lirico che rispecchia, appunto, quella ricerca di giuste proporzioni vagheggiata da Gluck; e fra suono e parola scatta un rapporto complementare a sua volta assai gluckiano, perché Jacobs calibra il fraseggio orchestrale su quello vocale, ottenendo una dizione perfetta da tutti. Parallelamente, in perfetta unità d'intenti, il regista edifica uno spettacolo disadorno ma grandioso quanto a plasticità di resa.
La vicenda del mortifero baratto compiuto dalla regina di Tessaglia per salvare il consorte si dipana su una sorta di non-palcoscenico (un rettangolo con un lato lunghissimo e l'altro assai più corto, che consente agli spettatori primi piani o campi lunghi a seconda del lato in cui pubblico è collocato e i cantanti, di volta in volta, agiscono), con la matericità evocativa e la semplicità polimorfa del grande “teatro povero”. Dunque niente scenografia, ma solo una quantità smisurata di sedie da giardino, che – isolate o raggruppate, ora scagliate ora accatastate – rivelano in Simons un maestro nel far “recitare” gli oggetti, al pari della manciata di cornacchie morte (tra il pubblico qualcuno rabbrividiva) chiamate a riassumere quel raccapriccio funereo che in Alceste è un ingrediente fondamentale; costumi indifferentemente antichi e moderni, dove giacche e tuniche, coriste in abiti maschili e coristi in vesti femminili convivono; lavoro millimetrico sulla fisicità dei cantanti, a cominciare da Nigl che si fa carico di tutti e tre i ruoli baritonali (il Banditore, il Gran Sacerdote e Apollo), riassumendo in un unico personaggio gli aspetti del potere politico, religioso e divino. Mostrando – sembra suggerire la regia – non tanto l'imperscrutabilità degli dei, ma il loro fondamentale disinteresse nei confronti degli umani.
È una scelta che fa del baritono, in qualche modo, il mattatore dello spettacolo. Eppure, sotto altri aspetti, lo penalizza. Se Birgitte Christensen, con il suo registro di petto sonoro e ombreggiato, è un'Alceste corposa nella declamazione ma morbida nel cantabile, e insomma un eccellente esempio di “recitar cantando”, Nigl – per come il regista gli costruisce addosso il suo personaggio uno e trino – si trova a veleggiare verso i lidi di un “cantar parlando” mezzo monteverdiano e mezzo postmoderno, con tanto di falsetti e risa isteriche. Ovviamente ciò non basta a occultare un'emissione, in realtà, solidissima: ma la duttilità con cui affronta una simile interpretazione non lo mette al riparo da un senso di artificiosità.
Il tenore Thomas Walker è un Admeto un po' esile ma molto musicale, mentre Anicio Zorzi Giustiniani e, soprattutto, Kristina Hammarström insufflano spessore ai loro ruoli – sulla carta stereotipatamente metastasiani – di confidenti del re e della regina. E i due figli di Alceste e Admeto – la giovanissima Alicia Amo e il piccolo Konstantin Bader – sono un prodigio di grazia canora e danzante. Il finale di Simons è tutto per loro, con i genitori redivivi che si allontanano insieme (di nuovo nell'Ade?) e i fanciulli che corrono in lungo e in largo, ormai padroni della scena e, forse, del futuro. D'altronde è “Frei + Tod”, ossia “Libertà + morte”, il sottotitolo di quest'edizione della Ruhrtriennale.
Paolo Patrizi
26/8/2016
Le foto del servizio sono di Caroline Seidel.