Il lutto si addice ad Alceste?
A sipario aperto, un'enorme lavagna nera occupa il proscenio. Cinque disegnatori, muniti di gessetto bianco, tracciano linee, archi, una scalinata. Quando l'Orchestre des Musiciens du Louvre di Grenoble attacca l' ouverture, la facciata di Palais Garnier si delinea nei suoi tratti essenziali. Con questa preziosa mise en abîme – peraltro già sperimentata tanto da Bob Carsen per un raffinatissimo Capriccio straussiano quanto dalla Fura dels Baus per una labirintica produzione del Castello del principe Barbablu di Bartók – cominciava Alceste, tragédie lyrique in tre atti di Christoph Willibald Gluck, scelta dall'Opéra di Parigi quale titolo inaugurale della stagione, in vista delle celebrazioni per il tricentenario della nascita del compositore tedesco che cadranno nel 2014. Non è solo un'operazione di specchi, quella che propone il regista Olivier Py: perché l'opera, nella versione francese di François-Louis Gand Le Bland du Rollet, figura tra i capisaldi della riforma gluckiana. Rappresentata per la prima volta al Burgtheater di Vienna il 26 dicembre del 1767, nella lezione originale di Ranieri de' Calzabigi, Alceste dapprima travolge e stravolge l'impianto dell'opera seria settecentesca, riportandola all'originaria concezione di rinnovata tragedia greca. Voltata in francese, quando approda sulla scena dell'Académie Royale de musique di Parigi, il 23 aprile del 1776, si configura quindi quale perfetto esempio di rielaborazione delle rigide norme che regolavano la declamazione nella tragédie lyrique, per come era stata concepita da Jean-Baptiste Lully – che con la sua Alceste ou Le triomphe d'Alcide, nel 1674, aveva fondato il genere – a Jean-Philippe Rameau. Perfetto esempio di dramma psicologico, prevalentemente incentrato sui due personaggi principali, la tragedia dell'amore coniugale trova così la strada di una verità drammatica, semplice e naturale, sublimata nei lunghi recitativi, accompagnati da un'orchestra che segue le voci «non più come un valletto accompagna il suo padrone, ma come le braccia, le mani, gli occhi, i movimenti del viso e tutto il corpo accompagnano il linguaggio dei sentimenti e della passione.»
Evocare il palazzo di Admète attraverso i tratti della facciata di Palais Garnier, allora, diventa una raffinata celebrazione delle sorti dell'opera francese, che grazie all'intervento di Gluck transiterà poi verso i fasti del grand-opéra, da una parte, e delle austere rielaborazioni berlioziane, dall'altra. Per Olivier Py, enfant terrible della scena teatrale francese, d'altra parte, è anche il modo per firmare uno spettacolo sobrio ma efficace, in cui la prevalenza del nero, la passione per le tenebre diventa memento mori di canoviano, composto dolore. Sulle lavagne, immaginate dallo scenografo Pierre-André Weitz e illuminate dai neon di Bertrand Killy, i disegnatori rappresentano un cuore ed un teschio, cimiteri pieni di croci e vedute urbane ispirate a Claude Lorrain o a Gerrit Adriaensz Berckheyde: tutto viene continuamente disegnato e cancellato, esattamente come la morte apparentemente elide la vita; ma su tutto soffia un segno, un sogno di speranza, rappresentato proprio da quelle croci che, estranee al mito, sottolineano un aspetto dell'opera – il ritorno dei morti alla vita – che sembra anticipare gli esiti più alti della religione cattolica. Tutto è illusione, per Py, nel gioco dell'effimero teatrale: qui evidenziato dalla riproduzione del camerino di un attore, al proscenio, come dagli artifici che esaltano la realtà della vita – un Oracolo con il camice di un medico poco persuasivo, o ancora Hercule, deus ex machina, nei panni di un prestigiatore – su una morte apparente.
Ma è in musica e per musica che si compie il miracolo. Forse troppi Wagner, troppi Strauss ne hanno minato l'impostazione vocale, ma Sophie Koch rimane oggi il miglior mezzosoprano del panorama lirico francese. La sua Alceste, in crescendo nel corso della recita, deve forse perfezionare il senso di una declamazione, di cui forse si sono perdute le tracce; così come un registro grave più risonante – e il diapason abbassato certo non l'aiuta – avrebbe dato maggior spessore al personaggio. Ma è a partire dal finale del primo atto, con la celeberrima invocazione alle «Divinités du Styx», che la Koch guadagna in autorevolezza e slancio, divorata dal fuoco sacro di un amore coniugale indomito e tenero al tempo stesso, svettante negli acuti come nel velluto austero delle zone di passaggio. E si comprende bene il suo desiderio di sacrificio, se Admète viene cantato da Yann Beuron, forse la migliore incarnazione di quella vocalità di hautecontre – un tenore dal timbro cristallino e seducente – che solo Léopold Simoneau, nel corso del Novecento, ha saputo ricreare. Dizione trasparente e incandescente al tempo stesso, soavità della paletta espressiva unita al calore di armonici virili, potenza di un timbro chiaro, luminoso, naturale: tutto concorre a fare di Beuron il miglior interprete del repertorio sei-settecentesco francese. Intorno alla coppia regale, il resto della distribuzione sfiora la perfezione: Jean-François Lapointe è un Grand-Prêtre d'Apollon – qui un curato in tonaca – di grande nobiltà e comprensione, Franck Ferrari un Hercule capace di compiere l'ultima, grande magia di una vocalità non sempre irreprensibile, François Lis un Oracolo che impressiona maggiormente come divinità infernale. Il quartetto di corifei – la limpida Marie-Adeline Henry, con Stanislas de Barbeyrac, Florian Sempey e Betrand Bazin – è un ensemble piccolo ma irrinunciabile nel richiamare le funzioni assunte nella tragedia greca.
Alceste mancava ancora all'appello dei Gluck di Marc Minkowski, immortalati in altrettante, irrinunciabili edizioni discografiche con le compagini orchestrale e corale dei Musiciens du Louvre di Grenoble. L'eloquenza del gesto, l'articolazione impeccabile, l'imprevedibile, travolgente creatività dell'invenzione poetica fanno delle interpretazioni del direttore francese un modello di potenza drammatica difficilmente eguagliabile. Nell'ultimo atto, alla catabasi di Alceste agli inferi corrisponde l'anabasi dell'orchestra, che abbandona la fossa orchestrale per guadagnare, invadere l'intera scena. E solo allora la nera ananké abbandona l'eroina al sorriso di Apollo, che qui compare dorato e circonfuso di raggi luminosi come quello di Aimé Millet, svettante in cima alla cupola di Palais Garnier. Con un ultimo commento – un tag di sapore brechtiano – i disegnatori si congedano dalla scena: «La morte non esiste», scrivono sulla lavagna-sipario. Forse perché esiste la musica?
Giuseppe Montemagno
15/10/2013
Le foto del servizio sono di Agathe Poupeney.
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