RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

9/4/2016

 

 


 

Centottandadue più uno

Se non fosse stato per quell'uno, sarebbe stata cifra tonda. La favorite, con la e finale, la versione francese pensata e scritta da Donizetti per l'Opéra di Parigi, venne premièrata (quale orrido vocabolo!) il 2 dicembre 1840. La terza e ultima recita (escludendo l'anteprima under 30) proposta al Donizetti Opera Festival di quest'anno, di cui si riferisce, si è tenuta sabato 3 dicembre 2022: centottantadue primavere e un giorno per questo grand-opéra, eseguito in edizione critica e nella sua interezza, balletto compreso – venti minuti di divertissement musicale com'era prassi nel teatro francese dell'epoca, al secondo atto (onta e disonore su Wagner, che nel 1861 osò proporre un Tannhäuser col balletto a inizio primo atto! La gioventù parigina non era ancora entrata per ammirare le silfidi di Venere!).

Proporre La favorite nello stesso teatro, il Donizetti di Bergamo Bassa, dove pochi anni fa, nel 2019, andò in scena la prima rappresentazione (o)scenica assoluta dell'Ange de Nisida, equivale a chiudere il cerchio, a completare con la tappa finale un percorso di avvicinamento verso quella che è l'espressione completa e più riuscita di un materiale musicale che Donizetti aveva iniziato a ideare almeno sei anni prima. Si parte infatti dall' Adelaide, del 1834-38, opera abbozzata in Italia con il progetto di proporla al Théâtre Italien di Parigi, rimasta poi incompleta. La fonte è il romanzo Mémoires du Comte de Comminge di Claudine Guérin de Tencin (madre di d'Alembert), del 1735, rielaborato in dramma teatrale da François Baculard d'Arnaud col titolo Les amants malhereux, ou Le comte de Comminge, del 1764, sul quale si basa il libretto (non pervenuto) dell' Adelaide. Parte delle idee confluiscono nell'Ange de Nisida, su libretto di Alphonse Royer e Gustave Vaëz (o Vaêz), del 1839-40, pensata per il Théâtre de la Renaissance ma mai inscenata a causa della chiusura prematura del teatro stesso. Pochi mesi dopo, un nuovo contratto con l'Opéra permette a Donizetti di recuperare l'accantonata Ange , adattarla e infine trasformarla in grand-opéra (con l'aggiunta di una nuova sinfonia e del succitato balletto, per esempio), di fatto facendola passare, da una situazione di commedia che man mano evolve in tragedia, a tragedia vera e propria, paludandola ed elevandola fino al raggiungimento di quel capolavoro che oggi conosciamo come La favorite, complice anche la sistemazione del libretto da parte di Scribe (e se non fece molto, almeno contribuì con la fama del suo nome) e il recupero di un'aria dal Duc d'Albe, Ange si pur. La ricezione, seppur modesta, alla prima, si andò intensificando, al punto che già l'anno dopo circolava l'edizione per canto e pianoforte (approntata da un giovane e, supponiamo, rosicone Wagner) e faceva indignare Berlioz per la dilagante italomania in Francia («Donizetti! Partout Donizetti! À l'Opéra, à la Renaissance, à l'Opéra Comique […] C'est une honte, c'est un scandale!»: Berlioz lo scrisse per La fille du régiment, del febbraio di quello stesso 1840, dunque qualche mese prima della Favorite: ma il clima era quello).

L'allestimento del Donizetti Opera Festival 2022 si fregia per questo lavoro di un cast d'eccezione, che fornisce una prova maiuscola sotto molto aspetti. I nomi sono quanto di meglio si potesse desiderare per questo repertorio in questo momento. Alla favorita del re presta la voce Annalisa Stroppa, che impersona una Léonor molto credibile, con voce piena, ben proiettata, calda nei gravi, addirittura mezzosopranile (d'altro canto la parte fu pensata per Rosina Stoltz, un soprano-Falcon, dal registro grave particolarmente sviluppato e corposo), come brillante negli acuti, densa di chiaroscuri e di nuances. L'ai-je bien entendu? – O mon Fernand, tanto per fare un esempio, il recitativo e aria dell'atto terzo dove a Léonor non pare vero di poter sposare Fernand col consenso del re, viene reso con una tale intensità di sentimento e di intenzione, da bucare, se non lo schermo, il palcoscenico, la famosa quarta parete. Ma non è solo per la bellezza della voce: si riconosce nella Stroppa una completezza d'artista nella recitazione, nella gestione dello spazio scenico e, non ultimo, nel physique du rôle. A una tale Léonor fa da degnissimo Fernand Javier Camarena, che per squillo brillante, eleganza di canto e facilità di emissione negli acuti, che solo raramente sanno di sforzato, non ha certo bisogno di presentazioni, attestandosi come uno dei più affermati e riconosciuti interpreti del belcanto. Ne dà superba prova lungo tutta la recita, sfiorando in certi punti le inflessioni insospettate di un tenore drammatico. Traspare dalla sua performance un tratto non sempre coglibile: l'entusiasmo. Per quel che è dato capire allo scrivente, si percepisce non solo la grande tecnica con cui la voce viene controllata, ma proprio il fatto che Camarena sia entusiasta di cantare. In epoca di lockdown si leggeva spesso la scritta Art si work: per chi lavorava nel mondo dello spettacolo e si era dovuto fermare, la chiusura dei teatri equivaleva a una battuta d'arresto, ed emergeva quella verità cui in genere poco si pensa, certo un po' venale ma innegabile, che, a fronte di tante belle fantasticherie romantiche, uno Chopin languidamente appoggiato alla tastiera, un Beethoven acceso di furore creativo, gli artisti sono uomini ai quali, se si toglie il palcoscenico, si toglie il pane. L'arte è lavoro. Ma è solo quello? Non credo, non posso e non voglio accettarlo. E Camarena è la prova che si canta non solo per lavoro ma per entusiasmo. Il Donizetti Opera Festival 2022 è stata per lui oltretutto occasione per presentare il suo ultimo CD, Signor Gaetano, una raccolta di arie donizettiane incise con l'Orchestra Gli Originali diretta da Riccardo Frizza (lo stesso direttore della presente Favorite). Arte e lavoro.

Ben caratterizzato anche il re Alfonso XI del giovane baritono (classe 1988) Florian Sempey. Di certo, nonostante di tutti si possa essere soddisfatti, Sempey è l'unico che gioca in casa quanto alla lingua: francese quella dell'opera, francese quella con cui lui, parafrasando Dante, ha imparato a chiamare mamma o babbo. Gli si riconosce perciò un'ottima sillabazione, un'ottima articolazione della parola (e di conseguenza della frase melodica) e una grande intelligibilità nel declamare il testo, cosa non così riuscita a nessuno degli altri interpreti. Di contro, la voce, pur se ben tornita e rotonda, tende a non correre, sembrando come ingolata e non disposta a concedersi al pubblico. Ben fatto anche per Evgeny Stavinsky, il Bathazar della situazione, che esibisce voce sicura, piuttosto vibrante, sebbene non di volume eccezionale, né di grande brunitura, e buon carisma nel ruolo – benché un po' più di gravitas sarebbe stata gradita da parte di chi incarna la volontà papale: sicuro non un Grande Inquisitore, ma di certo molto, molto più di un Melitone. Completano infine il cast la Inès di Caterina Di Tonno, apprezzatissima e da promuovere a ruoli più importanti, e Un signeur di Alessandro Barbaglia.

Un grand-opéra non è tale senza un'importante presenza di brani corali: Salvo Sgrò istruisce ottimamente per questa occasione sia il Coro Donizetti Opera, sia il Coro dell'Accademia Teatro alla Scala, la cui contemporanea presenza garantisce una resa fonica decisamente accattivante, salda, compatta e fluida. Tra i vari momenti va segnalato quello del Finale secondo, grandiosa scena d'insieme perfettamente riuscita sia musicalmente, sia scenicamente, soprattutto per merito del coro. Della direzione di Riccardo Frizza, già ascoltato più volte in passato, non si può che riferire in termini positivi, essendo uno specialista del repertorio e un ospite fisso del Donizetti Opera Festival; qui però, complice anche un titolo che anche nel panorama operistico donizettiano spicca per grandiosità d'impianto, se possibile si supera, conferendo all'Orchestra Donizetti Opera tratti dal sinfonismo non abituale, grazie anche al balletto durante il quale ha modo di mettersi in luce al meglio. La perizia filologica dell'esecuzione permette il recupero della cabaletta del duetto fra Léonor e Alphonse, eseguita alle prime repliche, poi tagliata per evitare problemi con un testo di aperta condanna contro la Chiesa, e mai più ripreso: una ricercatezza per palati esigenti.

La regia, affidata a Valentina Carrasco, che si affida alle scene di Carles Berga e Peter van Praet (che cura anche le luci), ai costumi di Silvia Aymonino e alle assistenti Giulia Randazzo (regia), Chiara La Ferlita (scene) e Hannah Gelesz (costumi), conserva un impianto tradizionale, riconducibile alle descrizioni e ai luoghi riportati nel libretto. Protagoniste della riflessione della Carrasco sono le favorite del re, quelle passate. Carrasco muove da un'osservazione: nel catalogo delle opere donizettiane, più di trenta recano come titolo il nome della protagonista: Lucrezia Borgia, Elvida, Betly, Pia de' Tolomei … perché non intitolare quest'opera Léonor de Guzman, tanto più che si tratta di personaggio storico realmente esistito? Perché il ruolo ricoperto, la favorita del re, è a quanto pare più importante del personaggio stesso. E il ruolo di favorita cambia a seconda dell'età, dell'avvenenza o del capriccio del re. Ecco perché, durante il balletto, vengono rappresentate proprio queste favorite passate, invecchiate, sullo sfondo di letti a castello a tre, quattro piani, coperti da un lenzuolo (allusioni…). Tratto interessante, a muoversi sulle coreografie di Massimiliano Volpini non è un corpo di ballo, non sono ballerine professioniste, ma donne comuni di Bergamo un po' in là con gli anni, «che portano nel nostro spettacolo la forza e la verità della gente comune. […] Io metto in scena delle persone: per me non ci sono solisti, coristi, ballerini, mimi, attori, ma semplicemente personaggi» (cit. Valentina Carrasco, dall'intervista del programma di sala). L'idea è buona, un refresh dell'ingessatura ottocentesca nella quale il balletto era una sospensione totale dell'azione; il re viene sbeffeggiato, ormai coperto di cipria e di rossetto sbavato, quasi a svilirne il valore e farlo uomo comune, come donne comuni sono quelle da lui favorite: peccato per i sonori buu dalla platea.

La scena dei letti e delle favorite è solo una di quelle a forte impatto visivo. Oltre a un grande lampadario, simbolo della sala del trono, o comunque dell'ambiente regale, e di un baldacchino alto e stretto, a mo' di lit à la duchesse (invero un po' funereo, tutto nero e sormontato da una croce, che ha ricordato la culla dell'anticristo in Rosemary's baby), a campeggiare nelle scene claustrali è una grande statua della Madonna Addolorata, ammantata di pesanti tessuti dorati, tratto tipico della devozione tanto spagnola, quanto… bergamasca. Ogni 18 agosto, dal 1602, si celebra infatti l'Addolorata, apparsa nel Borgo di Santa Caterina, ove ora sorge un santuario. Tra questa devozione, oggetto di tante celebrazioni a Bergamo e dintorni – nel programma di sala vengono riportate, tra le altre, fotografie delle processioni di Bergamo, Ardesio (Val Seriana), Coltura di Lenna (Val Brembana) –, e la presenza dell'ambiente ecclesiastico sulle scene di un'opera eseguita a Bergamo e scritta da un bergamasco si è voluto tracciare un parallelo (forzato anzichenò) facendo sfilare, poco prima dell'inizio dell'opera, una processione di vedove nerovestite, seguite da una Vergine (anch'ella non più nel fiore degli anni), accompagnate da suonatori di cornamuse al ritmo scandito da una grancassa, dal bar del Teatro Donizetti, traverso il foyer, in mezzo alla platea, e poi fuori da un'uscita laterale della stessa: trovata che ben poco ha a che fare con l'opera ma che ha accresciuto la curiosità nei confronti della recita.

Christian Speranza

11/12/2022

Le foto del servizio sono di Gianfranco Rota.