RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Il veleno dell'illusione

Da sinistra: Giovanni Arezzo, Francesco Russo e Giuseppe Pestillo.

La società lascia sempre dietro di sé relitti: sono i più deboli, i meno adattabili, quelli che hanno puntato tutta la vita su una carta sbagliata, quelli che hanno creduto alle promesse della politica o alle loro illusioni al punto di caderne vittime. Questi esseri umani sono relitti, pezzi di legno che galleggiano sul mare dell'esistenza, intridendosi di acqua fino a marcire, vagando qua e là finché un'onda più forte non li sbatterà su uno scoglio, frantumandoli. Le metropoli brulicano di questi relitti, genericamente definiti come sfigati, spesso additati come fannulloni, evitati perché di fatto rifiutano di integrarsi e si rifugiano in un mondo tutto loro, fatto di chiacchiere da bar, di illusioni mancate ma sempre rinnovate, di un darsi coraggio a vicenda, di tutti quei piccoli espedienti che se non a vivere, aiutano almeno a tirare a campare.

E questi relitti sono i protagonisti di The Aliens di Annie Baker, drammaturga statunitense Premio Pulitzer 2014, andato in scena il 15 aprile al Centro Zo di Catania per la seconda stagione di Teatro Mobile. Il lavoro, del 2010, narra la storia di due giovani trentenni, il cui mondo, tranne brevi incursioni fuori, si è ridotto al cortiletto interno di un bar, luogo angusto con poche sedie sgangherate, dove tra bidoni per l'immondizia e relitti di mattoni e cassette di plastica trascorrono le giornate a chiacchierare, a illudersi di essere musicisti o scrittori, fingendo di vivere, di avere delle mete, degli obiettivi. L'unico appiglio con la realtà sembra essere il giovane cameriere Evan, che li raggiunge più volte al giorno per buttare la spazzatura, ma anche lui verrà pian piano fagocitato in questa palude di illusioni e di infingimenti, in un'assurda amicizia che ne farà un alieno esattamente come KJ e Jasper. La morte per overdose di Jasper, primo relitto a infrangersi contro uno scoglio, segnerà di fatto lo sciogliersi di questa conventicola: KJ deciderà di partire, non si sa bene per dove, e lascerà al giovane Evan la chitarra dell'amico morto, una chitarra che un tempo era stata rubata, quasi un simbolico passaggio di testimone al nuovo alieno.

Un lavoro colmo di una tristezza infinita, lento nel suo svolgersi, dove i dialoghi, spesso volutamente frammentari e inconcludenti, sono più uno studio di carattere che funzionali alla vicenda; le didascalie, proiettate su uno schermo, sembrano rimandare al teatro elisabettiano, dove era lo spettatore a sforzarsi di ricreare mentalmente un ambiente dalla scena nuda. Ma la nudità del palcoscenico, punteggiata di rottami e di oggetti che rimandano ossessivamente alla dimensione del rifiuto e del naufragio, amplifica la sensazione di solitudine e di abbandono, che trova il suo momento più icastico in quella che è la sera del 4 luglio, festa nazionale americana: i tre improvvisano una festicciola, e i botti che echeggiano nella sala, rimando ai fuochi d'artificio, si scontrano assurdamente con la minuscola, solitaria girandola portata da Evan, lumicino colorato che pian piano si spegne, esattamente come svanisce un'illusione.

La regia di Silvio Peroni ha impresso agli attori un ritmo indolente, dal taglio crudamente realistico ma al tempo stesso distaccato, privo di pathos, tipico più del guardarsi vivere che dell'agire, che ha amplificato negli spettatori il senso di disagio dovuto al contatto con questa realtà aliena, che vive e si riproduce comunque in ogni metropoli moderna: ne è risultata una messinscena dalle caratteristiche postesistenzialistiche, tesa a ipertrofizzare l'assurdo di un'esistenza aliena perché separata dal consesso civile, e al contempo alienata nel suo ostinato rifiuto a ogni forma di integrazione, integrazione che comunque, assurdamente, si tradurrebbe in una nuova forma di alienazione generata dal pedissequo adeguarsi agli standard imposti dalla società.

I tre giovani attori, Giovanni Arezzo nel ruolo di KJ, Giuseppe Pestillo in quello di Jasper, e Francesco Russo in quello di Evan, si sono mossi con notevole disinvoltura sulla scena, senza mai indulgere a una recitazione naturalistica e caricata che avrebbe alterato il delicato equilibrio voluto dalla regia, con una gestualità spontanea ma sempre attentamente misurata, e dando prova di un'ottima dizione che ha permesso di seguire sempre i dialoghi con estrema facilità.

Giuliana Cutore

16/4/2018