«Col rio destino in guerra» (ma senza Manrico)
Non succedeva dal 1965 che la Scala inaugurasse con La forza del destino. Sfidando le note superstizioni lo fa quest'anno, e le smentisce col successo che saluta cast e regia. Non che da quella data non sia mai più stata allestita, anzi: l'ultima volta andò in scena nel 2001, quando Valery Gergiev propose la prima, rarissima versione, varata a San Pietroburgo il 10 novembre 1862, che ricondusse un Verdi in operoso (letteralmente…) da due anni, dopo Un ballo in maschera, nell'agone musicale italiano.
Ma quando si parla della Forza, ci si riferisce normalmente alla seconda versione, che più milanese non si può: debuttò infatti proprio alla Scala, il 27 febbraio 1869, corredata, in sostituzione del Preludio della prima versione, di quella che sarebbe diventata una delle Sinfonie più famose del suo repertorio, e rielaborata in molti punti, sia nel libretto, per il quale Verdi ricorse all'aiuto di Antonio Ghislanzoni (lecchese e non milanese, ma comunque lumbard), sia nella struttura drammaturgica, con, tra le altre cose, la celebre inversione dei quadri del terzo atto e soprattutto con un cambio di finale che rispetto a quello più nichilista del '62 verte sul potere salvifico della grazia, con Leonora che, morendo su quel «ti precedo», secondo una tradizione romantica in cui sembrano echeggiare le parole di Edgardo e Manrico («se divisi fummo in terra / ne congiunga il nume in ciel» / «e solo in ciel precederti / la morte a me parrà»), ammannisce ad Alvaro il perdono divino: un cambio di rotta che musicologi e biografi attribuiscono all'incontro di Verdi con Manzoni, nel 1868. E si sa quale influsso Don Lisander abbia esercitato prima durante e… dopo quell'incontro.
Riccardo Chailly torna sul podio per la sua undicesima inaugurazione. La critica maggiore da sempre rivolta all'opera, ovvero la grande eterogeneità di situazioni e una commistione di registri “alto” e “basso”, tragico e comico, che più che fondersi si accostano (grazie anche al lessico caratterizzante dei personaggi; tendenza già evidenziabile nel Ballo ma qui più sviluppata), si traspone in una maggiore difficoltà a livello direttoriale per la tenuta d'insieme e per l'aderenza ai repentini cambi di stile. In Chailly questa dicotomia viene risolta solo parzialmente, dando più attenzione al lato lirico-drammatico rispetto a quello più prosaico. Da tempo Chailly ha abituato a scelte non sempre ovvie o convenzionali, preferendo tempi “rilassati”, giustificati da una visione d'insieme personale e di solito condivisibile in relazione alla partitura affrontata. Anche qua è innegabile che i tempi “lenti” in alcuni casi siano vincenti; in altri, invece, essi appesantiscono l'azione, non dinamizzandola al meglio. La Sinfonia si paluda così di una gravitas che non le è propria, ma si carica di un significato narrativo inedito, così come alcune scene d'insieme, mentre altri passaggi, La Vergine degli Angeli, il finale ultimo, diverse arie soliste, beneficiano in toto di tale trattamento, aggiungendo alla sublimità della musica un tono meditativo che spinge a interrogarsi vieppiù sulla pregnanza del testo. Da tale punto di vista, la drammatizzazione dei duetti tra Leonora e il Padre Guardiano o tra Carlo e Alvaro, tanto per enucleare due passaggi tra i molti, raggiunge esiti eccellenti. Tutto questo, quando non inficiato da un suono talvolta un po' troppo massiccio, soverchiante in alcuni casi le voci, anche se molto raramente – la concertazione e il rapporto buca-palcoscenico sono infatti tra i punti forti di questa direzione – e da un impiego non condivisibile delle percussioni, chiamate a violenze davvero esagerate. Laddove ciò non si verifica, si delibano, tra gli altri, i carezzevoli, impalpabili tremoli degli archi in gran spolvero e i numerosi interventi solistici dei legni: campioni esemplificativi di un 'Orchestra di rilievo, quella della Scala, sempre proteiforme nella resa degli impasti timbrici e nell' amalgama sia delle singole sezioni, sia delle varie sezioni assieme.
Così come perfettamente amalgamato appare il Coro, che nelle abili mani di Alberto Malazzi assurge a ruolo di ottimo coprotagonista e la cui qualità si testa a partire dai corifei Flavia Scarlatti, Massimiliano Di Fino, Michele Mauro, Mariano Sanfilippo, Guillermo Esteban Bussolini e Giuseppe Capoferri. Si aggiunga anche una prestazione attoriale varia e spontanea.
Il cast della sesta recita, domenica 22 dicembre, di cui si riferisce, si pone a paradigma di uno standard elevato. A cominciare da Anna Netrebko, capace ogni volta di reinventarsi dando un tocco di originalità alle sue interpretazioni. Nel presente caso dipinge una Leonora che, in linea con la “tinta” dell'opera (per quanto in questo caso molto variegata), appare costantemente avvolta da un'invisibile, plumbea cappa di malinconia e tristezza, emblema dell'eroina romantica sventurata. Questo, grazie a un carisma scenico innegabile e a movenze teatraliz zate sì ma non artefatte. Vocalmente la sua carriera l'ha portata ad affrontare ruoli sempre diversi, anche in base all'evoluzione delle sue qualità vocali. Al momento prevale una voce ampia, voluminosa e calda, ricca di armonici, dal timbro ombroso e, specialmente nel registro grave, dotata di una non comune saldezza, sulla quale gioca slargando i suoni, mentre in acuto si apprezzano filati uniformi e acuti arrotondati e potenti. Vi è anche molto mestiere ed esperienza, che le permettono di prendersi alcune libertà: la disperazione su «Se voi scacciate questa pentita», tutta giocata su note gravi, è resa con un'enfasi che non pare fuori luogo definire pre-espressionista; e tutto concorre a far sì che il pubblico accolga con lunghi minuti di applausi soprattutto Me pellegrina ed orfana e Pace, mio Dio, senza dimenticare La Vergine degli Angeli, dalle emblematiche sfumature. Sfumature e delicatezze che cedono il passo a un'appassionata Madre, pietosa Vergine, in particolare su quel vibrato e sentito «non m'abbandonar, pietà, pietà», che già anticipa nella sua curva melodica il «Pensa che un popolo / vinto, straziato» del futuro Amonasro.
Degnissimo contraltare è il Don Alvaro di Luciano Ganci. Alla consueta eleganza di canto, conosciuta e apprezzata in altre sedi, Ganci unisce qui potenza ed espressività grazie a una cura evidente del fraseggio e il ricorso a una nutrita gamma coloristica, dosata e sfruttata a dovere ed espressa con voce argentea e squillante, che fa del passaggio di registro uno dei suoi punti forti. Ne risultano centri ben fatti, dominati e “parlanti”, e acuti corposi, quasi senza sforzo e risolti con dovizia tecnica per sopperire a una relativa stanchezza che ogni tanto fa capolino, giustificata dal ruolo impegnativo e soprattutto dalla sostituzione in praticamente tutte le recite del collega Brian Jagde (quella in oggetto è la quarta in dieci giorni!), assentatosi per l'improvvisa paternità. Ne risulta un Alvaro forse meno muscoloso e istintivo di ciò che il testo suggerisce, venato di una nobiltà che pare rifarsi al casato da cui proviene, ma sempre calato nel personaggio, che viene restituito non privo di una sua autenticità. Punte di eccellenza sono la grande e applauditissima scena del terz'atto, La vita è inferno all'infelice… Oh, tu che in seno agli angeli e i due duetti con Carlo del terzo e quarto atto, partecipati e coinvolgenti.
Carlo, per l'appunto. Un Carlo che ha in Ludovic Tézier un interprete dalla vocalità di ampio e uniforme volume, in grado di padroneggiare il difficile registro acuto con sorprendente naturalezza e di accedervi con acuti poderosi e tenuti. Ma non si tratta solo di questo. A conquistare, nella ballata di Pereda, in Morir!… Tremenda cosa!, nella granitica Urna fatale, nella baldanzosa cabaletta Egli è salvo! e nei duetti è un'attenta tornitura del testo, che non tradisce la sua origine francofona, una spiccata arte del legato, insomma, un lavoro di scavo sul testo che solleva giustamente palchi e platea in prolungati applausi. Curiosamente, non indulge, quanto a interpretazione, né in un Carlo belluino, né in uno insidioso alla Jago: piuttosto, in una via di mezzo che si attesta in atteggiamento di nobile riserbo, quasi che l'onore, pur costretto a macchiarsi di sangue, debba restare legato alla dignità del suo rango.
Sebbene classificata come mezzosoprano, la Preziosilla verdiana non si approfonda molto nel pentagramma ed esalta il suo lato sopranile; per questo trova in Vasilisa Berzhanskaya un'interprete con caratteristiche adeguate: un registro grave poco pronunciato, un gradevole smalto in acuto, esaltato da una voce agile ma non piccola, complessivamente persuasiva e in grado di calcare la scena con intenzione. Col Padre Guardiano di Alexander Vinogradov tocchiamo vertici di auctoritas paterna, mai severa, molto empatica. Voce timbrata, morbida e pastosa, sebbene non molto preminente, la sua lieve inflessione slava, anziché essere di detrimento, depone ancor più a favore del personaggio, richiamando indirettamente la grande tradizione dei bassi russi. A Vinogradov si contrappone Marco Filippo Romano, dalla brillante fibra vocale e dalla mimica estremamente comunicativa, che interpreta con compiaciuta simpatia un Fra Melitone di riferimento, burbero e malmostoso ma in fondo corretto e di buon cuore, a suo agio sulla scena grazie a consumate doti di attore. Ben fatto anche per la Curra di Marcela Rahal e per il Marchese di Calatrava di Fabrizio Beggi, vocalmente timbrato e scenicamente convincente. Tra il comprimariato si distinguono l'Alcade di Huanhong Li, ex allievo dell'Accademia scaligera, bronzeo e risonante, e il Mastro Trabuco di Carlo Bosi, che si riconferma abile e prezioso caratterista. Menzione speciale infine per il cavernoso Chirurgo di Xhieldo Hyseni, promettente allievo della suddetta Accademia.
Approvata, tolti alcuni particolari, la regia di Leo Muscato. All'impostazione tradizionale, cui si àncora per gli snodi fondamentali della trama, essa sovrappone una lettura che ha il vantaggio di non sostituirsi a quella dell'opera, semmai di integrarla con qualche spunto. Centrale è la tematica del conflitto, presentato come trasversale attraverso i secoli. Muscato dilata gli stacchi temporali tra un atto e l'altro e, grazie agli ottimi e accurati costumi di Silvia Aymonino, il primo atto si ambienta a metà Settecento, come da libretto, il secondo nell'Ottocento risorgimentale; col terzo siamo in piena prima guerra mondiale, mentre l'ultimo sembra tratto di peso dai telegiornali contemporanei, con Carlo ormai militare in mimetica e basco rosso e soldati in giubbotto antiproiettile che imbracciano gli AK-47. Le scene di Federica Parolini contribuiscono più che efficacemente a rendere queste ambientazioni. L'appartamento di Leonora, non delimitato da pareti, è reso con l'arredo da interni in mezzo a un boschetto rigoglioso di fronde verdi, cui si ha facile accesso anche senza passare per la finestra aperta. Fra primo e secondo atto, ecco Leonora fuggire proprio dalla finestra e sottrarre pastrano e cappello a un soldato nel bosco, immobile come altri in una sorta di tableau vivant coi fucili puntati. L'apparente stucchevolezza si scioglie al sopraggiungere del secondo atto, scenicamente il più debole, in cui l'osteria, soltanto immaginata, si compensa nella sua astrazione col brulicare di coristi e comparse. I costumi risorgimentali permettono di trasformare Preziosilla da zingara a fille du régiment in divisa (rifermento non peregrino, dato che il primo Rataplan operistico è donizettiano), ricciuta e rossiccia vivandiera/postina che nel distribuire le lettere inneggia alla guerra, vista qui ancora come evento più favoleggiato che vissuto (si perde il riferimento all'«indovina / ch'è giunta di lontano», ma è poca cosa). La natura torna in scena col secondo quadro dell'atto. Bastano un arco di pietra e una statua per far intendere di essere all'ingresso della chiesa della Madonna degli Angeli. L'intero colloquio col Padre Guardiano avviene in un suggestivo notturno di candele sparse per il bosco, e la consacrazione di Leonora, corredata da una processione di frati incappucciati nella penombra della chiesa, ha qualcosa di ascetico.
Tutte le scenografie sono montate su una grande piattaforma circolare: il riferimento alla ruota della fortuna medievale è evidente, a quella “fortuna” vox media che decenni dopo avrebbe acceso la fantasia di Orff. In molte sequenze la piattaforma ruota in senso contrario sotto i piedi dei personaggi, simbolo del destino che si oppone ai loro desideri. Ed ecco insieme le due letture di questa regia: guerra e destino. Travalicando le epoche storiche, i personaggi, sempre uguali e sempre diversi, assurgono a simbolo delle vicende umane, da sempre «col rio destino in guerra»: simbolo in cui ciascuno spettatore può rispecchiarsi e perciò valido a livello universale – qualcosa che va ben oltre la trama dell'opera. Un alternarsi non solo di vicende umane ma anche di stagioni, quasi a voler abbracciare lo scorrere del tempo su piccola e su larga scala, e la ciclicità delle stagioni come ricorso ciclico, appunto, delle (s)venture: dal florido e ridente boschetto del primo atto, estivo, quasi fiabesco, ci ritroviamo sotto la neve al terzo, fra le trincee della Grande Guerra, con gli alberi ormai isteriliti, secchi e spogli. Fra Melitone diventa il cappellano del fronte, e nel quarto, anziché il «fondaccio», distribuisce l'acqua da un bidone a degli sfollati, quasi un riferimento a Gaza, fra caschi blu e volontari della Protezione Civile (e qui il testo così irridente, calato nel contesto non più di poveri fuori da un convento ma di gente che ha perso tutto con la guerra, così tragicamente vicino al vero, risulta fuori luogo, quasi offensivo, e fa apparire Melitone più cinico di quel che è), sullo sfondo di vere e proprie macerie, probabilmente lo stesso monastero sventrato dalle bombe: toccante, a tal proposito, il fatto che Leonora, emergendo da queste macerie, abbracci la testa della statua della Vergine, la stessa che due atti prima l'aveva accolta e che ha subito le inevitabili conseguenze della guerra.
Particolare attenzione è data ai movimenti sul palcoscenico dei solisti e delle masse corali; in questo, le coreografie di Michela Lucenti rendono ancor più vivi i quadri d'insieme, e particolarmente d'effetto risulta la scena della battaglia, in cui i soldati, fucili alla mano e baionette inastate, combattono e cadono al rallentatore su una collina fumosa e rosseggiante. Peccato però per almeno tre situazioni, la fuga rocambolesca di Leonora e Alvaro fuori dalla finestra, lo sventato duello tra Carlo e Alvaro e la morte di Leonora, in cui le movenze sceniche troppo statiche tolgono parecchio realismo alla concitazione delle azioni.
La natura pian piano scompare lungo gli atti, per poi ricomparire accennata all'ultima scena dell'opera: illuminato dalle suggestive luci di Alessandro Verazzi, si screzia d'oro un tronco brullo, forse pronto a germogliare in un altro giro di giostra, per dirla con Terzani, un altro simbolo, stavolta di resurrezione, di nuovo inizio, per Leonora quello della sua vita incorporea, per Alvaro forse quello della rinascita spirituale, o quantomeno di una quiescenza dei dolori, aureolata da un cerchio luminoso in alto. E nello spegnersi del La bemolle acuto degli archi in tremolo, su quei pizzicati ai gravi che Chailly rende veramente d'effetto, si respira lo stesso clima di pacificazione degli ultimi esiti operistici di Verdi, che terminano tutti in un analogo sfumarsi ormai placato delle sventure: vedasi la successiva Aida, con Amneris che riesce solo a dire «Pace», vedi Otello; vedi il Boccanegra rifatto in quegli anni o lo stesso Requiem. Nelle ultime note prendono forma le riflessioni finali: di fronte a chi si è macchiato di un duplice omicidio, per quanto uno colposo e uno per legittima difesa, e a un implacabile difensore dell'onore, che agisce ostinato come uno Javert hugoliano, perseguendo un suo senso della giustizia, seppur deviato, Verdi invita a riflettere su dove stia davvero la colpa; che cosa sia la colpa; e se in definitiva ci sia davvero, davanti alla “forza del destino”. Per quanto dovuti e meritati, dopo un finale così, gli applausi paiono quasi fuori luogo.
Christian Speranza
27/12/2024
Le foto del servizio sono di Brescia&Amisano-Teatro alla Scala.
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