RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Essere o non essere… rockettaro!

Amleto è senz'altro uno dei ruoli più ambiti per un attore tragico: “il più rappresentato e discusso tra i drammi di Shakespeare”, come ebbe a scrivere Mario Praz, conta innumerevoli modi per rendere tutte le sfumature del carattere del controverso protagonista, dal primo attore a segnalarsi della parte, Richard Burbadge, passando per Betterton, che interpretava Amleto non come un languido e malinconico sognatore, ma come uomo pieno di vivacità e iniziativa, cosa che era agevolata nel 1700 perché i numerosi tagli fatti dopo la Restaurazione accentuavano l'azione a detrimento dei contenuti teoretici presenti; Wilks, nei primi decenni del XVIII secolo, accentuò tali tratti frenetici, mentre con Kemble e Kean si affermò l'aspetto sepolcrale e romantico di Amleto. Aspetto romantico che scomparve nuovamente con Irving, mentre cominciavano le prime messe in scena in abiti moderni; la prima fu appunto al Kingsway Theatre nel 1925.

In tale ottica, e data l'estrema, reale problematicità del personaggio eponimo, non poteva non destare una certa attesa l'Amleto di William Shakespeare, dove la notazione intendeva porre l'accento sull'integralità della messa in scena, rappresentato al Verga di Catania il 12 e 13 marzo per la regia di Ninni Bruschetta e la traduzione, tutto sommato abbastanza tradizionale e in linea col linguaggio aulico di più classiche ed eleganti versioni, di Alessandro Serpieri. E non tanto per l'annunciata modernità dei costumi e della regia, visto che si tratta di un esperimento che data al secolo scorso, quanto per l'aspetto archetipale conferito ad Amleto, che lasciava intravedere una possibile ontologizzazione del personaggio, una focalizzazione cioè sull'aspetto metafisico della situazione umana del giovane principe di Danimarca.

Bruschetta, lasciando volutamente da parte l'essenza della scissione amletica (il dubbio appunto), ha costruito il dramma sull'azione, optando dunque per una recitazione veloce, stringata, quasi ai limiti del convulso, alla quale il contemporaneo apporto delle modernissime musiche eseguite da Gianluca Scorziello e Tony Canto, con l'eccessiva dovizia di percussioni talvolta sovrapponentisi ai dialoghi, conferiva un tratto pressoché isterico che le movenze degli attori, costretti a danzare su ritmi ossessivi, amplificavano a dismisura, ben sorretti da luci di tipo psichedelico che accentuavano la confusione generale dell'insieme.

Dalla regia di Bruschetta non emergeva la volontà d'azione di Amleto, ma solo una frenesia sterile che ha di fatto appannato le notevoli doti drammatiche del protagonista Angelo Campolo, al quale un più attento dosaggio delle pause così necessarie in un teatro come quello shakespeariano avrebbe permesso una migliore e più incisiva resa, soprattutto nel celebre monologo, inopinatamente recitato nel parterre, a riflettori accesi, e con tutti gli altri attori in scena, in una goffa contaminazione tra teatro elisabettiano e teatro brechtiano di dubbio effetto.

Né ha molto giovato l'idea del fantasma con bastone e cappello, e con uno strano personaggio al seguito di cui non si riusciva a comprendere la funzione; se tutti gli attori hanno evidenziato una discreta scuola, non è certo stata una soluzione felice far agire Claudio (Emmanuele Aita) abbigliato come un rockettaro impastigliato, né far agitare Gertrude (Maria Sole Mansutti) con movenze lascive o isteriformi, condite di continui brancicamenti erotici con Claudio. Quanto a Ofelia (Celeste Gugliandolo), aveva troppo della ragazzina patetica e larmoyante e troppo poco della dolente sensibilità che avrebbe meglio sottolineato il suo rapporto con Amleto. Infine, una dizione più attenta e meno sporca di quella che hanno sfoggiato in particolare Orazio (Francesco Natoli) e Polonio (Antonio Alveario) sarebbe stata davvero più consona al vocabolario aulico della traduzione, che certo mal tollerava inflessioni dialettali siciliane e campane.

Infine, l'idea di rappresentare tutto Amleto in unica soluzione, il che ha significato due ore e mezza abbondanti senza un attimo di respiro, è stata senza dubbio l'aspetto più infelice e deleterio, almeno per il pubblico, di uno spettacolo che, pur offrendo qua e là alcune idee abbastanza suggestive, non è riuscito né a concretarle né a mantenersi all'altezza delle aspettative con le quali era stato annunciato.

Giuliana Cutore

14/3/2016