Aida fra intimismo e kolossal
Declinare Aida prendendo come punto di riferimento estetico e narrativo Cabiria di Giovanni Pastrone, film muto datato 1914, sembra risolvere la dicotomia insita nell'opera verdiana privilegiando l'ottica kolossal a scapito della cifra intimistica. Eppure, assistendo all'allestimento pensato da Davide Livermore per l'Opera di Roma, l'impressione che se ne ricava è quasi opposta. La scena del trionfo è vuota, un gesto di rifiuto nei confronti di tutta la paccottiglia oleografica che in passato rappresentava il bagaglio irrinunciabile di Aida. Il regista, coadiuvato dal suo collaudato gruppo di lavoro, confeziona uno spettacolo di indubbio fascino visivo, minato però da una sostanziale ripetitività. Il parallelepipedo che domina lo spazio scenico ospita i video creati da D-Wok, spire di rettili in continuo avvolgimento, flutti, fiamme e sabbia che scorrono e sfumano quasi a simboleggiare le effimere esistenze umane, che si materializzano di tanto in tanto in figure urlanti nella metamorfica materia visuale. Il tutto avvolto da pennellate cromatiche, le luci sono di Antonio Castro, di grande suggestione. Alla riuscita estetica contribuiscono poi i costumi, invero molto belli, di Gianluca Falaschi. Detto ciò, l'impostazione registica appare piuttosto statica, in linea con un'opera non troppo distante dall'ottica oratoriale, ma eccessivamente uniforme nelle scene di massa. Ne soffrono la recitazione, sovente improntata a una gestualità stereotipata vecchio stampo, e la caratterizzazione psicologica dei personaggi. Riguardo le coreografie, nel primo atto assumono movenze meccaniche e tribali, mentre in seguito evocano un'estetica coreutica novecentesca non sempre in linea con la cifra generale. Ciò non toglie che alcune scene risultino di indubbio impatto emotivo, come quella del giudizio di fronte ai sacerdoti, o ancora il finale, che trascende le atmosfere opprimenti del sotterraneo per farsi pura luce. Riguardo infine le recenti discussioni sul blackface, ossia l'uso di trucco nero da parte di interpreti bianchi, appaiono piuttosto sterili secondo l'opinione dello scrivente. Tutti gli interpreti, o quasi, mostrano un trucco di un biancore terreo, sin troppo fantasmatico in Radamès. Livermore intende eliminare ogni riferimento etnico diretto per concentrarsi sul rovello interiore.
Michele Mariotti plasma la materia sonora con una sensibilità inedita. La sua Aida è colma di nuances e di preziosismi, solitamente trascurati dalla prassi interpretativa corrente. Una lettura che si avvale del pregevole apporto dell'Orchestra e del Coro, ben preparato da Ciro Visco. Riguardo il cast Gregory Kunde, chiamato all'ultimo istante in sostituzione dell'indisposto Sartori, fa una splendida figura. In Celeste Aida è ancora piuttosto prudente, ma indica già il carattere del suo Radamès. Il recitativo iniziale, la frase “Se quel guerrier io fossi” è incrinata da un presagio di morte. La speranza di condurre le schiere egizie non suona totalmente eroica. Dopo questo esordio la prova di Kunde è in continuo crescendo. La voce, pur con qualche oscillazione inevitabile considerando l'età, appare intatta e squillante. La morte viene resa con toccante umanità e pieno governo dell'emissione. Gli sta accanto l'Aida sensibile e toccante di Krassimira Stoyanova, in simbiosi completa con la visione di Mariotti. La linea di canto appare sempre sostenuta dal fiato, mentre le filature sono impeccabili. Ekaterina Semenchuk parte in sordina ma, nel quarto atto, impressiona davvero per temperamento e forza espressiva. Vladimir Stoyanov non ha grande peso specifico ma è comunque un Amonasro rifinito, nel complesso apprezzabile. Discreto il Ramfis di Riccardo Zanellato, buono il re di Giorgi Manoshvili e ottimo infine il messaggero di Carlo Bosi nel suo breve intervento.
Riccardo Cenci
12/2/2023
La foto del servizio è di Fabrizio Sansoni.
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