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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Musica e parola

Piero Rattalino e Ilia Kim interpretano Franz Liszt

La stagione sinfonica 2019 del Bellini di Catania, giunta al suo quarto appuntamento, ha proposto il 24 febbraio al pubblico un interessante recital pianistico, interamente dedicato a Franz Liszt, della pianista coreana Ilia Kim, con un'introduzione (ma sarebbe meglio dire un commento snodantesi nel corso del concerto) del musicologo Piero Rattalino. Il programma recava infatti il titolo Amore e morte nella poetica di Franz Liszt, ed è stato proprio su questo tema che il maestro Rattalino ha svolto i suoi interventi, per la precisione due nel primo tempo e uno nel secondo, nel corso dei quali, pur dando prova esaustiva di un'esorbitante cultura musicale, ha espresso alcune osservazioni, soprattutto letterarie, alquanto bizzarre, che non hanno mancato di lasciare un po' perplessa buona parte dell'uditorio.

Come ben si sa, il binomio amore e morte costituisce uno dei modelli ancestrali dell'umanità, ed è presente in quasi tutta la cultura occidentale, sia sul versante mitico che su quello letterario: dal momento che la produzione lisztiana che la Kim avrebbe eseguito era costituita essenzialmente da musica a programma (recante cioè un titolo esplicativo del carattere della composizione e della vicenda che la musica tenterebbe di narrare), con particolare se non esclusiva attenzione a brani dove l'amore conduceva alla morte, il maestro Rattalino ha iniziato la sua dotta esposizione spiegando al pubblico la fondamentale differenza che a suo dire esiste tra una considerazione strutturalistica della musica e una umanistica, dove la prima rimandava alla musica cosiddetta pura, la seconda appunto alla musica a programma, nella quale il contenuto musicale rimanderebbe continuamente alla narrazione di vicende umane o al commento di un testo poetico. Ora, se è chiaro per gli addetti ai lavori che con strutturalistico Rattalino intendeva probabilmente riferirsi al formalismo (cioè alla musica analizzata solo nella sua forma armonica), non è altrettanto chiaro cosa il musicologo volesse intendere con umanistico, e non è chiaro nemmeno perché a due termini abbastanza esaustivi e definiti in ambito musicologico e culturale se ne siano voluti sostituire degli altri, l'uno, quello umanistico, abbastanza ambiguo e sin troppo sfumato, l'altro, strutturalistico, che trova nell'analisi linguistica i suoi punti di forza, di inizio e di analisi, non esattamente adatto a un'arte asemantica come la musica. Sì, perché è chiaro che, da qualunque parte la si pigli, la musica è un'arte asemantica, basata cioè su rapporti fra suoni e non su rapporti tra parole o su corrispondenze fra suoni e parole: prova ne siano, anche in ambito melodrammatico, dove è forse apparentemente più cogente il rapporto tra musica e parola, i frequenti vagabondaggi di una stessa melodia da un'opera all'altra, come il coro belliniano che passa da Bianca e Gernando a Zaira per poi trovare finalmente ricetto in Norma, o addirittura l'uso di un'ouverture inizialmente scritta per un'opera per un'altra di genere completamente diverso, come il travaso della sinfonia da Elisabetta Regina d'Inghilterra a Il Barbiere di Siviglia.

Ma tralasciando queste sottigliezze linguistiche, ben diversa e più bizzarra è stata una riflessione del maestro Rattalino che, dopo aver commentato la Ballata n.2 in si minore, dedicata al mito di Ero e Leandro, dove peraltro ha introdotto uno strano binomio arte-etica ormai sdoganato almeno dai tempi di Benedetto Croce, insieme a una strana interpretazione moralistica della kalokagatia greca (definizione come tutti sanno dell'aretè eroica di stampo omerico), si è lanciato in un commento del canto V dell'Inferno dantesco, e in particolare dell'episodio di Paolo e Francesca, per la cui interpretazione ha ammesso addirittura di aver richiesto telefonicamente l'ausilio di un teologo. Il problema in buona sostanza era il seguente: come mai due dannati come Paolo e Francesca rimangono insieme anche nella pena eterna, ottenendo in tal modo dall'Onnipotente quasi un ammolcimento del loro soffrire? Ha questa benevolenza divina una giustificazione teologica? Ora, a parte che tale episodio di compensazione nell'aldilà dantesco dei torti subiti in vita non è l'unico, e basterebbe pensare al canto XXXIII dell' Inferno, col conte Ugolino che rosica il cranio dell'Arcivescovo Ruggieri, trovando in tal modo vendetta al tradimento che lo aveva condotto, secondo la tradizione, a cibarsi della carni dei figli, oppure a Ulisse e Diomede racchiusi nella stessa fiamma nel canto XXVI, non è chiaro come un teologo avrebbe potuto spiegare al maestro Rattalino i motivi di una scelta poetica, o darne una giustificazione dottrinaria che nulla ha a che vedere con la poesia. Riteniamo che qualunque studente di lettere, anche catanese (visto che a Catania ha insegnato un dantista del calibro di Nicolò Mineo e che a livello culturale in Sicilia non siamo esattamente al livello del Bangladesh), sarebbe stato più adatto a spiegare all'illustre musicologo che la poesia non va giudicata o interpretata con altro criterio che non sia quello della poesia stessa, e che in generale l'idea che la teologia possa esser metro dell'arte è a essere generosi alquanto antiquata…

Quel che Rattalino sembra aver perso di vista nel corso della sua dotta esposizione è che di poesia si tratta, e dunque di scelta artistica e non religiosa, e da parte di Dante in particolare, che non ha esitato a collocare Celestino V nel vestibolo dell'Inferno tra gli ignavi, Nicolo III fra i simoniaci e addirittura a riservare a Bonifacio VIII, ancora vivo all'epoca, un posto in prima fila nella stessa bolgia, mostrando, da laico qual era, di curarsi poco, sia a livello poetico, sia dottrinario (sua è la dottrina dei due soli opposta a quella del sole e della luna di Innocenzo III), dei dettami della teologia cattolica!

Altrettanto bizzarra è stata un'altra affermazione, data en passant nel corso del dotto commento, affermazione secondo la quale nella scuola italiana non si insegna a leggere la musica: desideriamo solo ricordare al maestro Rattalino che i programmi della scuola secondaria di primo grado, anche in Sicilia, prevedono due ore settimanali di educazione musicale, nel corso delle quali vengono insegnati sia la lettura delle note, sia i primi elementi di teoria musicale, sia la composizione dell'organico orchestrale, sia la classificazione delle voci, sia soprattutto uno strumento, generalmente il flauto dolce.

La parte strettamente musicale del concerto, affidata alla consorte dello stesso Rattalino, ha però senz'altro offerto al pubblico un programma di assoluto interesse: la pianista Ilia Kim, giovane e avvenente nel suo splendido abito da sera che ne metteva in risalto le forme da mannequin, ha eseguito con sofferta partecipazione, e dando prova di notevole musicalità, la Ballata n.2 in si minore S171, seguita poi da due brani tratti da Années de pèlerinage, Deuxième Année. Italie, S161: il n.5, Sonetto 104 del Petrarca, “Pace non trovo” (rammentiamo, per chi si fosse accorto della discrepanza, e per chi volesse leggere nella sua interezza il sonetto, che Liszt teneva presente la numerazione della traduzione di Peter Cornelius, corrispondente al sonetto 134 del Canzoniere originale) e il n.7 Après une lecture de Dante, ispirato appunto al canto V dell'Inferno. Dotata di una tecnica sicura che le ha permesso di affrontare con nonchalance le impervie difficoltà lisztiane, di un tocco delicato e al tempo stesso prorompente, atto a rendere appieno sia la mestizia che l'irruenza di Liszt, la pianista ha proseguito nella seconda parte del concerto con Sospiri, tratto da Cinque pezzi brevi, S 192, dedicati alla Baronessa von Meyendorff, col celeberrimo Sogno d'amore (altro esempio di come la stessa musica possa servire da supporto a situazioni assolutamente diverse, come la pubblicità dei Baci Perugina e quella della Pellicceria Annabella!) e con la Morte di Isotta, da Tristan und Isolde, S 447, trascrizione lisztiana del finale dell'opera di Wagner, classico esempio, insieme a molti altri di quel virtuosismo trascendentale di cui l'ascolto di Paganini nel 1831 aveva destato l'esigenza nel compositore ungherese. Il concerto si è chiuso con il Mephisto Walzer I, S 514, anch'esso commentato con dovizia di particolari dal maestro Rattalino che, a proposito della coda che chiude il brano, ha parlato di irruzione della carnalità nella musica, offrendo un parallelo non proprio illuminante con il Rigoletto di Verdi, in particolare con la scena quarta del secondo atto, dove l'arrivo del paggio della duchessa sulla scena svela al buffone che la figlia si trova insieme al Duca. Secondo Rattalino, così come nella coda del valzer sarebbe adombrato un amplesso, cosa non compresa dai pianisti fino ad Arrau, che lo avrebbe intuito per primo, così nella scena d'opera in questione la presenza dell'amplesso, immaginato fuori scena, rappresenterebbe l'irrompere dell'erotico nell'opera lirica. Ora, tralasciando il fatto che il problema di Verdi nel Rigoletto non era esattamente questo, ma piuttosto, come in Traviata, la presenza di un genitore molto ingombrante che, ossessionato dall'idea del bene dei figli sa solo combinare disastri, ci sembra che la carnalità nel melodramma sia entrata molto prima nell'opera, almeno con il Don Giovanni di Mozart: se nel Rigoletto l'amplesso starebbe dietro una porta ben chiusa, cosa dire della frase più che esplicita che il seduttore rivolge a Zerlina, quel Là ci darem la mano evocatore della servizievole mano di casanoviana memoria?

Ai calorosi applausi del pubblico, Ilia Kim ha risposto con l'esecuzione di un Notturno di Chopin, che ha degnamente concluso una serata musicalmente davvero valida.

Giuliana Cutore

24/2/2019

Le foto del servizio sono di Giacomo Orlando.