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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Parigi

Notevolissimo Chénier

Ce ne sono tanti nel mondo della musica e della lirica in particolare che arricciano il naso quando sentono parlare di 'verismo' in generale e di Giordano in particolare. Sicuramente sarebbe azzardato affermare che si tratta di un 'numero uno', ma non è neanche l'ultimo perchè, tra l'altro, godeva di un notevole fiuto teatrale anche se la musica non sempre lo assecondava.

Certamente non sono i suoi dei soggetti che si possano far digerire con un allestimento più o meno sovversivo e neanche, benché l'orchestra sia un elemento di rilievo, con una bacchetta grande o di solo effetto. Prima vengono i cantanti per le difficoltà cui devono far fronte, oltre a essere bravi interpreti, e soprattutto convinti sul serio di quanto fanno: ruoli e soggetti sui quali non poche volte il tempo ha lasciato forti impronte.

Rarissimo poi che capiti di sentire un titolo verista, e ancora di più di Giordano, in forma di concerto, che non è per niente ideale mai, ma ancora meno in questo caso. Nonostante ciò, il viaggio da Monaco di Baviera, dove ancora sono in programma alcune recite con la stessa compagnia, per una sola replica al parigino Théâtre des Champs-Elysées è venuto a dimostrare che, quando si riuniscono tutti gli elementi richiesti, è possibile e perfino consigliabile o desiderabile.

L'orchestra e il coro, istruito da Stellario Fagone, dell'Opera dello Stato bavarese non passano per 'specialisti' di questo tipo di repertorio eppure si facevano onore uscendone a testa ben alta: 'solo' si tratta di fare il mestiere che tocca con serietà e senza pregiudizi su autori e musiche. Omar Meir Wellber non pare, neanch'esso, un maestro che si dedichi particolarmente al verismo, ma è sí un solido professionista che si è preso cura della musica e l'ha fatto così bene che questa è stata per me la migliore delle interpretazioni che ho sentito da lui, molto meglio, per esempio, che a Valencia. Non dovrebbe dimenarsi tanto sul podio (particolarmente le gambe possono disturbare) e innanzitutto non dimenticare che le dinamiche di un'orchestra e di un coro sul palcoscenico, proprio dietro gli artisti, vanno osservate in tutt'altro modo che quando si è in buca, ma in una sola recita è difficile cambiare il passo.

Nello Chénier la compagnia di canto è foltissima e molti dei ruoli sono brevi ma per niente facili. Vedere un nome quale quello di Doris Soffel alle prese con la Contessa di Coigny sa di lusso: il noto mezzosoprano sembrava piuttosto divertirsi e forse il suo lavoro è stato un po' sopra le righe (tutti interpretavano le loro parti con enfasi) con anche un abito degno di Hollywood. J'Nai Bridges è di una belleza e un colore vocale stupendi per Bersi (anche qui abito compreso) e va seguita con interesse nello sviluppo della sua carriera; lo stesso dicasi del brillante Andrea Borghini (Roucher) e di Tim Kuypers, un bel Mathieu che solo una volta è caduto nelle trappole di quelle piccole frasi 'traditrici' di Giordano. Quanto a un'altra veterana, Elena Zilio, continua a sorprendere il magnifico stato vocale in particolare nei registri centrale e grave, la facilità dell'emissione e l'emozione diretta del canto – la vecchia Madelon fa sempre il suo effetto, ma certo che sì: oggi ci sono delle parole che sembrano vietate o solo si usano in contesti negativi, ma l'effetto fa parte del teatro eccome. Tra gli altri da rilevare i mezzi di basso del giovane Anatoli Sivko, almeno per due ruolini quali Schmidt e un inserviente. Kevin Conners, da canto suo, ha una grande esperienza scenica ma il suo Incroyable non riusciva a nascondere una voce che ha conosciuto sicuramente tempi migliori.

I tre principali venivano accolti con delle ovazioni entusiastiche, e una volta tanto per niente esagerate. Luca Salsi ha un volume importante, un bel timbro, e in Gérard importa un po' meno che prediliga il fiume della voce alle sfumature; imponente il suo 'Nemico della patria'.

Jonas Kaufmann è indubbiamente il migliore Chénier che oggi si possa trovare. Un'altra questione è se l'aspetto vocale della parte gli sia perfettamente congeniale. Ci sono dei momenti in cui la sua particolarissima emissione fa sentire suoni intubati (i gravi), altri in cui i suoi ormai arcinoti pianissimi mancano di colore, e l'ossessione per filare i suoni quasi provoca un incidente nell'attacco ('Ora') del duetto del secondo atto, salvato solo in extremis dalla sua perizia tecnica. La presenza scenica è ideale, l'italiano è di tutto rispetto, sa dire, benché gli sfugga il canto di conversazione all'inizio del secondo atto, e il suo carisma, che sa benissimo come adoperare, gli serve a meraviglia per il resto. Il suo 'Improvviso' è stato un momento unico, ma negli altri atti raggiungeva solo quel livello, un po' a sorpresa, nel ‘Sì, fui soldato' del terzo. Invece arrivava un po' stanco al quarto (che sembrerebbe il più adeguato ai suoi mezzi) e più di una volta veniva coperto dall'orchestra o dalla stessa Harteros.

Già, l'immensa Anja Harteros. Bisogna sentirla fraseggiare, vederla muoversi anche 'in forma di concerto' per capire il miracolo di questa grande artista. Si prenda quanto precede o segue a 'La mamma morta', la sua 'semplice' scena di sortita nell'atto primo, il modo di cantare 'intorno il nulla' con un colore particolarissimo sul 'nulla'. Sembra di sentire una italianissima voce verista senza nessuno degli eccessi, con un'emissione, una dizione e un'adeguazione stilistica perfette: Maddalena ideale insomma che, perfino quando la recita sembrava interrompersi dopo la sua grande aria (applausi scroscianti e 'bravi' urlati da tante gole), dava ancora un'altra lezione: come ringraziare senza rompere il filo dell'azione. Ovviamente, teatro traboccante e in tripudio. Si capisce perfettamente l'angoscia di tutti quelli che fino all'ultimo momento davano la caccia all'agognato biglietto. Perchè ne valeva la pena .

Jorge Binaghi

30/3/2017