Andrea Chénier
inaugura la stagione 2017-2018 della Scala di Milano
La stagione d'opera 2017-2018 del Teatro alla Scala è stata inaugurata con l'opera Andrea Chénier di Umberto Giordano, scelta voluta dal direttore musicale Riccardo Chailly, il quale oltre ad aver diretto la precedente edizione nel 1985 vuole proporre il repertorio italiano cosiddetto verista, negli ultimi anni in po' trascurato. Andrea Chénier, dramma storico in quattro quadri su libretto di Luigi Illica, fu rappresentato in prima assoluta proprio alla Scala il 28 marzo 1896 e fu un trionfo, anche se a priori erano molte le perplessità sul mettere in cartellone lo spartito. Protagonisti furono Giuseppe Borgatti, allora non conosciuto ma poi divenuto celeberrimo soprattutto nel repertorio wagneriano, Evelina Carrera e Mario Sammarco, uno dei migliori baritoni a cavallo del secolo.
L'opera è un dramma di ambiente storico, i spirato alla vita del poeta francese André Chénier, all'epoca della rivoluzione francese, mentre il personaggio di Carlo Gérard ricalca la figura del rivoluzionario Jean-Lambert Tallien. Sebbene l'opera porti la matrice di “opera verista”, come tutta la produzione di fine Ottocento, caratterizzata da drammi a tinte forti, soggetti ambientati in sfere popolari della società e la predisposizione al canto e alla strumentazione orchestrale “urlata”, Andrea Chénier ne condivide solo alcuni tratti, in particolare la violenta passione, forti aspetti drammatici e un'insistente violenza, ma l'aggettivo verista non è del tutto esatto. Innanzitutto è presente una diligente ricostruzione storica e ambientale, un peculiare colore, e tanti particolari che ricreano un'atmosfera passata. Il protagonista è un personaggio realmente vissuto, martire a poco più di trent'anni, che a suo tempo il romanticismo aveva trasformato in eroe e alfiere degli ideali della rivoluzione. Inoltre, se il librettista Illica aveva creato dettagliate didascalie che rendono molto fedele in tutti i particolari il quadro storico, introducendo anche personaggi come Robespierre, il compositore congloba peculiarità sonore che ricordano gli anni della Rivoluzione francese: danze e minuetti aristocratici, rulli di tamburo, canti patriottici, temi come quello della Carmagnola o l'accenno alla Marsigliese. Tutti questi ingredienti, l'ambiente storico e il motivo sociale-politico, per Giordano sono un cavillo atto a mettere in scena una grande storia d'amore. Tutti gli elementi, anche importanti, contenuti nell'opera, i valori morali e rivoluzionari, la giustizia sociale sono di contorno alla forza dell'amore, che porterà i giovani amanti al tragico destino ma con un lieto fine forse ultraterreno.
La ricercata composizione di Giordano punta a un discorso narrativo continuato, rilevante è che il recitativo si fonde spesso con immense espansioni liriche, il tutto denota una flessibilità dell'insieme. Tuttavia non mancano momenti d'intenso canto spiegato, che si rifanno al classico pezzo chiuso, cioè la cosiddetta aria. Il compositore ha riservato questo modo ai tre personaggi maggiori, gli altri si esprimono attraverso un declamato ricercato, mentre l'orchestra può essere definita come un tessuto sinfonico di coesione. A tal proposito è molto interessante l'intervista di Franco Pulcini a Riccardo Chailly, pubblicata nel programma di sala, nella quale il maestro evidenzia che “… la parte strumentale rappresenta la base, il nucleo portante di tutta l'opera. In questo senso è anche una partitura sinfonica davvero sorprendente e il peso specifico dell'orchestrazione è rilevante sia per la modernità sia per gli anni in cui fu scritta…. Il mondo armonico è di un'originalità e una ricchezza musicale sbalorditiva. La melodia non sarebbe così affasciante e unica se non fosse sorretta da una personale impalcatura di accordi originali sorprendenti. Si distingue da altri titoli del tempo anche per questo motivo.”. In queste parole si coglie il pieno significato di quest'opera, unica ed esemplare nel contesto musicale storico, ma anche della produzione stessa di Giordano, e il successo incontrastato sia di pubblico sia dei grandi interpreti che vollero eseguirla è indicativo.
Bellissimo lo spettacolo creato dal regista Mario Martone, che volutamente, e aggiungo fortunatamente, è fedele alla collocazione storica. Partendo dal concetto che il mondo merlettato e incipriato della nobiltà francese sta per concludersi, ha voluto realizzare una visione che sovente s'ispirava al tableau vivant. Scelta molto condivisibile e di forte impatto scenico, cui si aggiunge la genialità della scenografa Margherita Palli che s'ingegna nella costruzione di scene collocate su una pedana rotante, chiaro riferimento a un carillon antico, che crea continuità nell'azione drammaturgica. Scene scomponibili in breve tempo dove s'impongono i grandi specchi a parete nella dimora nobile, che girati diventano pareti di grande fascino per l'esterno del II atto. E ancora, le tribune del tribunale che diventano le scale per l'ascesa alla ghigliottina. Martone è maestro nel muovere le masse, le quali hanno una funzione rilevante nel corso della narrazione, rappresentativa la scena dei popolani che guardano i nobili che danzano la gavotta attraverso un vetro nel finale I, e anche il pubblico veemente nella grande scena del tribunale. I singoli, anche le parti minori, sono caratterizzati per una recitazione sobria ed elegante, mai enfatica ma molto espressiva. I costumi, di grande fattura e pregevole aderenza storica, sono di Ursula Patzak, che conferma una creatività davvero rilevante. Le luci di Pasquale Mari contribuiscono con determinazione efficace e professionale alla lettura voluta dal regista, di grande effetto le scene d'ombra poi improvvisamente illuminate a giorno con il cambio della scena. Mirabile la coreografia di Daniela Schiavone che ci riporta al perduto mondo settecentesco di danze stilizzate e manierati minuetti.
Il direttore Riccardo Chailly è il sommo musicista che conosciamo, e la lunghissima carriera a livelli alti lo dimostra. Tuttavia in quest'occasione ha dimostrato qualità non indifferenti che hanno determinato la sua concertazione. Innanzitutto Chailly ama profondamente questo repertorio, e l'ha dimostrato nell'intenso lavoro con l'Orchestra della Scala, la quale in forma smagliante ha seguito le direttive in maniera perfetta, producendosi in un suono uniforme, compatto, molto sonoro, ricchissimo di colori. Non sono mancati una tensione drammaturgica e un gioco di scansioni ora liriche ora drammatiche di assoluto pregio e raro ascolto. Secondo aspetto rilevante è stata la maniaca preparazione e cura nell'accompagnamento dei solisti, ai quali ha permesso una disinvoltura canora di pregio senza mai perdere lo spirito e l'enfasi dello sparito. A tutto questo bisogna aggiungere un'appassionata conduzione, in molte occasioni di stampo sinfonico con uno slancio impressionante, sempre in perfetto equilibrio con la partitura. Una grande prova che va doverosamente lodata. Ottima la prova del Coro diretto da Bruno Casoni, che trova nella compagine scaligera una delle migliori formazioni, duttile, omogenea e di grande professionalità. Non meno valida l'esibizione del Corpo di Ballo, sotto la guida di Frédéric Olivieri, che nei brevi interventi dimostra tutta la grande classe e perizia tecnica che da sempre lo distinguono.
Il protagonista era Yusif Eyvazov, al centro di troppe polemiche alla vigilia. Alla fine è uscito vincitore dall'infernale sfida, merito anche dell'accurata preparazione con il direttore. La voce non è particolarmente seducente, ma questo si sapeva, tuttavia il cantante ha dimostrato un'ottima linea di canto, sempre controllata e con buoni colori e prezioso fraseggio. Il registro acuto è sfavillante e all'occorrenza sfoggiato con gusto e facilità. Di contro ci sono ancora una zona centrale e l'emissione a mezzavoce da rifinire, oltre a una recitazione più incisiva, ma al termine della recita non si poteva che attribuirgli un plauso incondizionato e anche la considerazione che probabilmente non c'era possibilità migliore.
Anna Netrebko, debuttante nel ruolo di Maddalena, e nella vita reale moglie di Eyvazov, ha interpretato e cantato un personaggio rifinito in ogni punto. La voce sempre bella e piena è voluminosamente ovattata con suoni seducenti, e il fraseggio dimostra le ottime capacità esecutive della cantante. A suo discapito un'innaturale forzatura nel registro grave, la partitura lo prevede, ma senza accusare gravi danni, trova maggiore terreno fertile nella celebre aria, eseguita con straordinaria passione, e nella parte finale dove sfodera un'avvincente vocalità, drammatica, quasi trasognante, impetuosa e con sfumature ricercate da grande artista. La dizione però a tratti è incomprensibile. Scenicamente un po' impacciata nel primo atto, è a mio avvio una Maddalena completa con grande carisma nel III e IV.
Il Gérard di Luca Salsi è improntato su un'interpretazione e un canto tipicamente verista, nel senso buono del termine. La voce è tanta e anche di pregio ma l'emissione non è morbida e la linea di canto sempre impostata con forza che alla fine rende la sua esibizione monocorde e stentorea. Tuttavia quando riesce a modulare le sue qualità vocali, come in alcuni passi di “Nemico della patria”, i risultati sono completamente diversi e più apprezzabili.
In Andrea Chénier è compreso un folto numero di parti secondarie, le quali hanno un'importanza maggiore che in altre opere, perché hanno piccoli ma rilevanti spazi personali e nell'insieme costituiscono una colonna portante dell'opera. Il Teatro alla Scala ha trovato l'eccellenza nella scelta di tali ruoli, e sarebbe riduttivo fare una classifica, ma doverosamente l'elenco non è in ordine decrescente bensì tutto di altro livello.
Eccellente la prova di Carlo Bosi, l'Incredibile, che ha eseguito la sua parte con una squisita brillantezza vocale. Non da meno il Roucher di Gabriele Sagona, cantante dotato di un'ottima vocalità, pastosa e molto sonora. Emozionante Judit Kutasi, vecchia Madelon, dotata di bella voce da contralto, e frizzante la Bersi di Annalisa Stroppa sempre precisa e puntuale. Classe e signorilità contraddistinguevano la prova di Mariana Pentcheva, contessa di Coigny, stilizzato e puntuale l'abate di Manuel Pierattelli.
Non meno efficaci e di grande fattura vocale le interpretazioni di Costantino Finucci, Fléville, Gianluca Breda, un Fouquier sprezzante, Francesco Verna, un Mathieu non caricaturale, l'imponente e fiero carceriere Schmidt di Romano Dal Zovo, e il bravo Riccardo Fassi nel doppio ruolo del Maestro di casa e Dumas.
Il pubblico gremiva il teatro esaurito in ogni ordine di posto, particolarmente attento e osservante alla volontà del direttore di non applaudire dopo gli assoli per non interrompere l'azione drammatica (scelta anche logica, ma poco teatrale), e al termine ha decretato un autentico trionfo, meritatissimo, a tutta la compagnia. La produzione era dedicata a Victor De Sabata nel cinquantenario della scomparsa, il quale aveva diretto alla Scala l'opera nel 1932 e 1949.
Lukas Franceschini
24/12/2017
Le foto del servizio sono di Brescia e Amisano-Teatro alla Scala.
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