Bene o Mahler…
Con il concerto tenutosi sabato 28 maggio 2016 all'Auditorium Arturo Toscanini di Torino l'Unione Musicale ha aperto la campagna abbonamenti per la stagione 2016-17, ricca come sempre di iniziative e appuntamenti. Per l'occasione, Andris Poga, ex assistente di Paarvo Järvi all'Orchestre de Paris e dal 2013 Direttore Musicale della Latvian National Symphony Orchestra, ha diretto l'Orchestra Giovanile Italiana con la partecipazione della violoncellista Miriam Prandi.
La prima parte del programma ha contemplato l'esecuzione del Concerto per violoncello e orchestra n ° 2 in si minore Op. 104 di Antonín Dvorák, una delle sue pagine migliori (secondo Schönberg, Dvorák compose «un attrattivo Concerto per pianoforte […], un bel Concerto per violino ed un supremo Concerto per violoncello»). Tre anni dopo aver omaggiato l'America che lo aveva accolto e nominato Direttore del neonato Conservatorio di New York con la Sinfonia n ° 9 “Dal Nuovo Mondo” Op. 95, le radici boeme tornarono a farsi sentire nell'anima di Dvorák: e così, nel 1895, proprio a ridosso del rientro in patria, nacque il Concerto per violoncello: nel secondo movimento vi è infatti un'autocitazione dal Lied «Lasciatemi solo coi miei sogni», intriso di quella malinconia tipicamente slava e dedicato in segreto alla cognata Josefina Cermáková. Per la verità la richiesta di un concerto per violoncello era già stata avanzata a Dvorák negli anni praghesi da Hanuš Wihan, ma il compositore aveva declinato l'invito, giudicando il violoncello poco adatto a fare da solista (forse memore dell'esperienza non proprio riuscita di un giovanile Concerto per violoncello in la maggiore). Si ricredette dopo aver ascoltato i lavori di Victor Hebert. Ma quando il Concerto in si minore prese forma, gli screzi con Wihan fecero sì che la partitura fosse tenuta a battesimo da Leo Stern a Londra (città che, già a partire dalla Settima Sinfonia si era dimostrata entusiasta di Dvorák) nel marzo 1896.
L'esecuzione di Poga si attiene a tempi tradizionali; inizia misteriosa, presaga di avvenimenti. Lo sviluppo, al centro del primo movimento, viene rallentato, permettendo di apprezzare una sorta di canto popolare nobilitato dalla voce del violoncello: lo stupendo e incantato dialogo tra solista e flauto, su un tremolo impalpabile di archi. Il secondo tempo, il lamento-Lied del violoncello, viene interrotto da squarci a piena orchestra giustamente deflagranti, e che contribuiscono viepiù all'intimismo generale, qui ben accentuato proprio per contrasto. Il terzo movimento, a fronte di uno slancio iniziale non troppo pronunciato, dà la precedenza alla cantabilità della linea melodica, rallentando negli episodi più lirici: intento apprezzabile, sulla stessa linea del primo movimento; ma l'esacerbazione di tale tendenza porta di tanto in tanto a rilassare troppo la tensione emotiva, cosa che fa percepire il movimento poco legato e gli fa perdere in compattezza.
Più luci che ombre per l'Orchestra Giovanile Italiana, almeno in questa prima parte. Le luci sono sicuramente i fiati, in particolare flauti e clarinetti, che nei passaggi in cui è dato loro di emergere, eseguono le parti con intenzione e trasporto. Le ombre sono i pieni orchestrali, in cui prevalgono spesso gli ottoni su una compagine sonora non sempre omogenea: la resa fonica è confusa e a tratti bandistica (benché parte della responsabilità ricada sul direttore).
Nel Concerto Op. 104 le agilità sono subordinate all'espressività (motivo per cui Wihan contestò Dvorák: non poteva mettere in luce le sue doti di virtuoso): e Miriam Prandi riesce a esprimere il meglio di sé proprio nei passaggi melodici, in cui il suono risulta caldo, convincente, sebbene a tratti poco marcato, cosa che impedisce di apprezzarla lungo tutta l'esecuzione perché coperta dall'orchestra (caratteristica, questa, riscontrata anche in altre esecuzioni dell'Op. 104 e imputabile più alla scrittura di Dvorák che alla debolezza del solista: sarebbe necessaria qui una miglior calibrazione del rapporto solista-direttore), a parte i punti in cui volutamente gli arpeggi, eclissati dal suono degli altri strumenti, fanno da accompagnamento. Va da sé che, con un concerto e una solista del genere, il risultato migliore si concretizzi nel tempo lento, in cui, soprattutto verso la conclusione, la trenodia del violoncello diventa canto cullante e morbido, adagiato sui sempre ottimi flauti e clarinetti. Al termine dell'esecuzione, un encore a dimostrazione della tecnica e della versatilità della Prandi: Dolcissimo di Peteris Vásks, in cui, oltre all'emissione di suoni armonici, doppie corde, trilli e fruscii, la solista è chiamata a intonare un vocalizzo che ricorda vagamente l'Op. 34 n ° 14 di Rachmaninov.
Tutta dedicata a Gustav Mahler la seconda parte del concerto con la sua Quinta Sinfonia. Lavoro monumentale, la Quinta segna il passaggio dal primo periodo compositivo – dominato dall'ispirazione del Wunderhorn, antologia di poesie popolari tedesche racccolte da Arnim e Brentano – al secondo, in cui vi è il ritorno allo strumentale puro. È una sinfonia tutto sommato ottimista, risalente a una parentesi di vita felice del compositore, che ha da poco sposato Alma Schindler, in procinto di diventare mamma della prima figlia, ed è diventato Direttore Principale dell'Hofoper di Vienna. Siamo nel 1901-02, e la composizione viene portata avanti, come sempre, nelle vacanze estive tra una stagione lirica e l'altra («Dirigo per vivere e vivo per comporre») nella villa di Maiernigg, sul Wörthersee, in Carinzia. Tuttavia, dovremo aspettare il 1911, l'anno della sua morte, per la veste orchestrale definitiva. La sinfonia si compone eccezionalmente di cinque movimenti, grosso modo suddivisibili in tre blocchi (1+1)-1-(1+1), con il lungo Scherzo a far da ponte centrale attorno a cui ruotano, da una parte la Trauermarsch (Marcia funebre) e il Tempestosamente mosso (la presentazione e l'approfondimento di un dramma), dall'altra il celebre Adagietto (che Visconti utilizzerà come colonna sonora del suo Morte a Venezia) e il Rondò-Finale (il superamento del dramma iniziale, dapprima elevandosi alle massime sfere della trascendenza – Adagietto – per poi calare la poesia rubata alle stelle nella vita di tutti i giorni – Finale). Resta l'enigmatico Scherzo, «tempo maledetto» (parola di Mahler) per la sua refrattarietà ad essere classificato entro le pareti di uno schema preconcetto.
Da eccellente direttore qual era, Mahler richiede per le sue Sinfonie orchestre e direttori di prim'ordine. La direzione di Poga non è malvagia, prediligendo il tratto didattico, aderente alla pagina scritta, sebbene senza molta personalità: un'esecuzione adatta per essere introdotti nell'universo sinfonico mahleriano, con tempi e rilievi sonori equilibrati (merito non da poco, contando la complessità della scrittura orchestrale). Ma l'Orchestra Giovanile Italiana, alle prese qui con una partitura più complessa rispetto a quella di Dvorák, delude diverse volte. Restano come punti fermi i legni; ma gli ottoni si dimostrano spesso carenti: parliamo di vere e proprie stecche. Le note più dolenti (è il caso di dirlo)? La Trauermarsch, dove, se all'inizio la tromba solista ha avuto solo qualche esitazione, alla fine, agli ultimi arpeggi nell'acuto, prima che intervenga il flauto, sbaglia decisamente nota, e lo Scherzo, dove gli scivoloni del corno obbligato e degli altri cornisti non si sono nemmeno contati. È probabile che, dopo i primi errori, gli altri siano stati dettati dall'emozione a effetto domino. L'esecuzione migliora globalmente negli ultimi due movimenti, nell'Adagietto per la presenza dei soli archi e dell'arpa, nel Rondò per l'impegno generale dell'orchestra e per il minor ruolo solistico degli ottoni. Buona, a tal proposito, la concitazione espressa nelle pagine finali leggermente accelerate, spinta ottimistica conclusiva della Sinfonia, d'incontenibile esuberanza, e la dolcezza dell'Adagietto, che, a dispetto della disattesa agogica Sehr langsam (Molto lento), riesce ad essere comunque espressivo.
Christian Speranza
7/6/2016
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