Anna Bolena sulla Mosa (Orw Liegi)
L'Anna Bolena donizettiana (Milano 1830), ai nostri giorni non troppo rara nei cartelloni, riemerse (è necessario ricordarlo di nuovo?) nel 1947 al Liceu di Barcellona con cantanti non oscuri, a cominciare dal soprano Sara Scuderi, attorniata da Giulietta Simionato, José Soler e Cesare Siepi. Diresse quella prima ripresa novecentesca Napoleone Annovazzi, le cui forbici furono probabilmente meno drastiche di quelle di Gavazzeni alla Scala dieci anni dopo, ma della “pionieristica” Bolena catalana non si sa oggi quasi nulla. Resta il fatto che questo primo massiccio volet della cosiddetta e non premeditata trilogia Tudor donizettiana richiede un impegno esecutivo superiore rispetto ad altre partiture “alternative” del Bergamasco. Anche i grandi teatri incontrano i loro problemi con la Bolena (com'è avvenuto qualche stagione fa alla Scala). Anna Bolena si richiama in qualche modo per proporzioni e struttura all'imponente Semiramide rossiniana del decennio precedente, segnando convenzionalmente al contempo lo spartiacque nella produzione teatrale del Bergamasco, che si affianca così al più giovane collega Bellini, dimostrandosi semmai un romantico più deciso e ardente. “Epopea musicale” secondo Mazzini, la Bolena trascina e avvince, sin dalle prime indispensabili note dell'ouverture, grazie ad un'invenzione musicale e a un'individuazione drammaturgica, che culminano nel grandioso e folgorante finale ultimo.
L'elegante sala del Théâtre Royal liegese era strapiena la sera di questa Bolena vallone, che, misurata sull'entusiasmo del pubblico giovane e meno giovane di aficionados e non, si potrebbe considerare più o meno all'altezza delle aspettative malgrado taluni tagli “improvvidi” (commenterebbe Leonora del Trovatore). Lo spettacolo tradizionale (non sinonimo di oleografico!) curato da Stefano Mazzonis, che ha le redini della casa, si è presentato come un plausibile zoom sulla corte di Enrico VIII tra luci e soprattutto ombre (ben dosate da Franco Marri), nella doviziosa e oppressiva boiserie storica dello scenografo Gary Mc Cann, sulla quale spiccavano i sontuosi costumi d'epoca di Fernand Ruiz. Il Patron si è preoccupato di vivacizzare lo spaccato di rinascimento inglese con una esplicita alcova tra il re e la nuova candidata al regale connubio verso la fine dell'ouverture e con la presenza di una bambina Elisabetta, più che riconoscibile pensando al dopo. Il coro dei cortigiani e delle dame, presenza importante in quest'opera, egregiamente servito dalle forze della casa, lo sarebbe stato maggiormente se i movimenti dei coristi fossero stati meglio coordinati. Giampaolo Bisanti ha diretto con lucida, sensibile visione ed equilibrio la puntuale orchestra dell'ORW.
L'Europa dell'Est, serbatoio inesauribile di ragguardevoli talenti lirici, ha avuto la parte del leone in locandina con tre solisti (loro ben piazzati ad ovest): il basso e le due donne. La più attesa, il soprano russo Olga Peretyatko, non ha sicuramente deluso nell'affrontare la gravosa tessitura della protagonista, che ha reso espressiva e appassionata, valorizzando ammirevolmente la parola scenica (il magnifico testo di Felice Romani, che giustamente suscitò l'invidia di Bellini) fino al lancinante exploit del finale ultimo. Il soprano ucraino Sofia Soloviy non nuova come Giovanna Seymour, della quale ha reso nell'eloquenza del canto l'ambivalente personalità, è emersa con efficace contrasto specie nel duetto con la “rivale” e nella sua implorante aria successiva. Lodevole coi suoi poderosi ma ben dosati mezzi il tenore di Tenerife Celso Albelo come Riccardo, sfortunato amante della regina, non si è spinto troppo oltre una buona ordinaria amministrazione (il che non è già poco), mentre il mezzo soprano Francesca Ascioti, lombarda come Donizetti, ha incarnato un paggio Smeton vibrante e commosso. Quanto al basso rumeno Marko Mimica, con alle spalle il famoso ritratto di Holbein a fargli da specchio, mi è sembrato quasi il fratello minore di Enrico VIII, pur apprezzabile e autorevole vocalmente (l'ho preferito però Padre Guardiano in una recente Forza del destino). Per concludere, se il tenore belga Maxime Melnik si è dimostrato elegante e mellifluo quale Hervey, che è l'anima nera del re, il “basso” Luciano Montanaro, nel ruolo di Rochefort fratello della regina, ha ancora una volta messo in luce i propri pessimi talenti.
Fulvio Stefano Lo Presti
9/5/2019
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