La rabbia e l'orgoglio
Le dolorose e per certi versi surreali vicende, incomprensibili in un paese che voglia definirsi civile, che il Bellini di Catania ha vissuto negli ultimi mesi mi hanno fatto ritornare alla mente un'altra sciagura che anni fa colpì il patrimonio culturale del nostro Paese: mi riferisco ai numerosi crolli verificatisi a Pompei, crolli che richiesero naturalmente un notevole investimento di denaro pubblico per salvare costruzioni di epoca romana, irripetibili come lo sono i teatri lirici italiani. Dal momento che i crolli di Pompei erano stati causati, oltre che da carenza di manutenzione, da abbondantissime piogge, un cronista televisivo non trovò di meglio che andare a intervistare un allevatore padano, che aveva prudentemente costruito la sua azienda nelle vicinanze dell'argine di un fiume; l'allevatore padano, ed è superfluo dire a quali idee fosse fedele e devoto, affermò senza mezzi termini che di Pompei non gliene importava un fico secco, e che a Roma avrebbero fatto meglio a lasciare andare in malora Pompei, mandando anzi le pietre (sic!) della Casa dei Gladiatori a lui, che ci avrebbe costruito un argine per difendere i polli dal fiume… A scanso di equivoci, e onde evitare le ire degli animalisti, è assolutamente chiaro che i polli hanno tutto il diritto di essere difesi dalle piene, ma è anche vero che i suddetti pennuti, a differenza di Pompei, sono perfettamente mobili, e possono essere spostati senza danno alcuno per il patrimonio archeologico nazionale, e con costi praticamente nulli. Ma, a parte gli scherzi, quel che preme sottolineare qui è che il discorso dell'allevatore padano è assolutamente in linea con l'importanza, praticamente nulla, attribuita alla cultura e, cosa ancor più grave, all'esistenza delle persone che di cultura e di arte vivono, da parte di certa politica e di certi politici che oggi governano la Sicilia. Non entriamo qui in dettagli tecnici sull'attuale crisi del Bellini di Catania, ma la sostanza è una sola: il governo regionale della nostra isola, l'unico a non essersi tagliato i vitalizi, attribuendosi anzi premi e premietti in bei soldoni, ha messo il teatro lirico nell'impossibilità di programmare la prossima stagione, nell'impossibilità di pagare i propri dipendenti, e nella non troppo remota possibilità di dover chiudere i battenti e di mandare in malora non solo un edificio di estrema rilevanza storica e culturale, ma anche centinaia di dipendenti, che a loro volta hanno famiglia, che hanno preso magari impegni economici gravosi, e che, nella generale crisi, troveranno certamente parecchie difficoltà a ricollocarsi e a vivere dignitosamente.
Capisco che la succitata politica potrebbe tacciare chi scrive di rivendicazioni sinistrorse di vario tipo, rivendicazioni nelle quali non ci sarebbe comunque nulla di male, visto che pensare alla gente che lavora non è ancora un crimine. Ma è più importante, a questo punto, lasciare da parte l'aspetto morale della faccenda, alla quale non sembra che certa politica sia molto sensibile, e porsi una domanda: cui prodest tale scempio sistematico, tale svalutazione programmatica della cultura in tutte le sue forme, dalla crisi in cui versa la scuola italiana a quella che affligge teatri e istituzioni culturali di vario tipo? Perché certa politica odia l'arte, il sapere, la coscienza storica in una parola, che di arte e cultura è figlia?
Perché un popolo ignorante è molto, ma molto più subornabile di un popolo che conosce e apprezza il proprio patrimonio culturale, che non confonde il colore della pelle con l'intelligenza, che sa che incitare all'odio razziale o religioso è una catastrofe per l'umanità, e di conseguenza non si lascia irretire da slogan propagandistici e da tiritere ripetute a più non posso dai vari Dulcamara della politica. Un popolo che apprezza e ascolta la musica sa che i confini tra le nazioni non esistono, e soprattutto sa che il melodramma italiano fu uno dei tramiti e dei veicoli più potenti e aggreganti di quel Risorgimento italiano che portò il nostro paese fuori dalla dominazione straniera, dominazione che fu comunque cosa ben diversa dall'Europa che certa politica accusa oggi di tutti i nostri mali, facendo finta di non sapere che il novanta per cento dei nostri attuali guai sono opera degli stessi partiti che oggi parlano e straparlano di patria, difesa dei confini e orgoglio nazionale!
In tale ottica, non può non destare ammirazione lo sforzo compiuto dal Bellini di Catania che, dopo più di un mese di estenuanti lotte, combattute su tutti i fronti, lotte che hanno portato il nostro Teatro alla ribalta nazionale, come esempio paradigmatico di un programmatico intento di affossamento di un patrimonio non solo culturale ma anche umano (un'orchestra e un coro stabili sono una risorsa che non può e non deve essere dispersa), ha trovato la forza, nell'anniversario della nascita di Vincenzo Bellini, di preparare un concerto commemorativo, andato in scena il 2 novembre (con replica il 3) e di rimbastire una programmazione, almeno fino alla fine del 2019. Preceduto da un breve intervento del direttore artistico Francesco Nicolosi, che ha sottolineato come il Teatro sia figlio della Regione Siciliana e da esso dipenda – il che significa che eventuali responsabilità di una futura e quanto mai deprecabile chiusura non possono e non devono in alcun modo essere imputate al governo nazionale ma solo a quello che siede a Palazzo d'Orleans – il concerto ha visto l'orchestra e il coro del nostro teatro esibirsi in un programma interamente dedicato al Cigno, sotto la direzione del maestro Davide Galaverna, primo contrabbassista, e con la partecipazione del soprano Manuela Cucuccio e dell'oboista Stefania Giusti. Le pagine più famose di Bellini, dalla Sinfonia de Il Pirata a quella de I Capuleti e i Montecchi, per finire con quella di Norma, si sono alternate ai cori de La Sonnambula (“Qui la selva è più folta ed ombrosa”), de I Puritani (“All'erta – all'erta” e “Piangon le ciglia – si spezza il cor…”) e de La Straniera (“Voga, voga, il vento tace”).
Il maestro Galaverna ha guidato con precisione e mano sicura l'orchestra del nostro Teatro, che ha suonato con estremo nitore di suono e grande compattezza, mentre l'oboista Stefania Giusti è riuscita a trovare il giusto amalgama sonoro con i suoi colleghi nell'esecuzione del breve e intenso Concerto per oboe e orchestra in mi bemolle maggiore, una delle poche partiture esclusivamente strumentali del Cigno.
Anche il coro, istruito dal maestro Luigi Petrozziello, ha trovato i giusti accenti per ogni suo intervento, esaltando la leggiadra levità di quello de La Sonnambula, il sinuoso ondeggiare di “Voga, voga, il vento tace” e la dolorosa partecipazione al dolore di Elvira del coro de I Puritani.
Manuela Cucuccio, già nota al pubblico catanese per la sua partecipazione a varie opere delle scorse stagioni, ha prestato la dolcezza della sua voce a “Care Compagne… Come per me sereno”, da La Sonnambula, eseguito con la relativa cabaletta “Sovra il sen la man si posa”, all'aria “Qui la voce sua soave” da I Puritani, a “Eccomi in lieta vesta… Oh quante volte, oh quante” da I Capuleti e i Montecchi, per finire con la celeberrima “Ah, non credea mirarti”, sempre da La Sonnambula, e completa dell'ardua cabaletta “Ah! Non giunge uman pensiero”. In tutti i brani eseguiti, il giovane soprano ha confermato la musicalità che la distingue, insieme a un'elegante fraseggio che le ha permesso di imprimere il giusto pathos sia alla sgomenta tristezza di Elvira sia al doloroso rimpianto di Amina, evidenziando al tempo stesso una buona padronanza tecnica, in particolar modo per quel che riguarda i filati e gli abbellimenti.
Il pubblico ha gratificato tutti gli artisti con un partecipe entusiasmo, tributando loro più e più volte calorosi applausi nel corso dell'esecuzione dei brani.
Giuliana Cutore
3/11/2019
Le foto del servizio sono di Giacomo Orlando.
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