Non tutte le Quinte escono col buco
Concerto vario e composito, quello di giovedì 7 marzo 2019 (con replica venerdì 8) all'auditorium Arturo Toscanini di Torino. La bacchetta di Edward Gardner ha raccolto sotto di sé tre brani profondamente diversi tra loro per autore, genere e finalità, nell'esecuzione dell'Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai (OSN), che qui gioca in casa, e la curiosità del melomane si è accesa all'idea di un programma tanto eterogeneo quanto raro. Al punto che per uno dei brani si è trattato della prima esecuzione assoluta, per lo meno nella nuova versione critica di Jirí Zahrádka del 2019.
Si tratta del Preludio all'opera Jenufa di Leoš Janácek. «Un momento – mi dirà il ventiquattresimo lettore – la Jenufa di Janácek non ha un Preludio». Vero. Perché è stato rimosso dall'autore. Il principale lavoro operistico del compositore ceco, presentato per la prima volta al Teatro Nazionale di Brno il 21 gennaio 1904 col titolo di Jeji pastorkyna (La sua figliastra), getta subito il pubblico nel vivo dell'azione, iniziando senza introduzione strumentale. Janácek, tuttavia, aveva pensato di aggiungerla, recuperandola da un lavoro del 1894 (orchestrato nel 1895) basato su una ballata popolare morava, una cupa storia di gelosia. Quel lavoro venne poi accantonato ed eseguito come brano autonomo nel 1906 col titolo di Žárlivost (Gelosia). Il brano, trattato con vigorosa maestria da Gardner, strattona il pubblico con i suoi ritmi irregolari esaltati da un'esecuzione energica che sveglia la platea e mette tutti sull'attenti. Si inserisce quale pendant tardivo nel panorama musicale torinese, dato che il progetto di presentare al Teatro Regio le tre opere principali di Janácek in tre anni consecutivi restò tronco, dopo La piccola volpe astuta (gennaio 2016) e Kat'a Kabanova (febbraio 2017), proprio del titolo più atteso.
Si entra nel vivo della serata con un altro lavoro poco frequente nei programmi da concerto: La mort de Cléopâtre, scena lirica per voce e orchestra su testo di Pierre-Ange Vieillard e musica di Hector Berlioz. Luglio 1829. Berlioz partecipa per la terza volta al concorso del Prix de Rome, dopo essere arrivato secondo nel 1828 con Hérminie. Era prassi che il premio andasse a chi si era classificato secondo l'anno prima. La vittoria sembrava lì a portata di mano. E invece niente. Sentendosi già vincitore, Berlioz si abbandona al suo estro artistico, commettendo l'imprudenza di sottovalutare l'impostazione conservatrice dei giurati, che non sopportano quel carico di novità rovesciato tutto in una volta nelle loro orecchie. Si tratta in effetti di una scena drammatica ad alto valore teatrale, impensabile senza la cornice di un palcoscenico, di un costume ad hoc, di un fondale. Ripensando all'infamia in cui ha gettato l'Egitto, Cleopatra chiede agli antichi faraoni di accettarla tra loro, concludendo che, invece, è meritevole unicamente della notte eterna. Si fa quindi mordere dal serpente e, rantolando, pronuncia le sue ultime parole. Questo, in sunto, il racconto dei versi di Vieillard, articolato in una forma piuttosto libera, rispondente ad esigenze sceniche e contenutistiche, e non ancorata ad alcun vincolo formale.
A interpretare Cleopatra e il suo monologo è chiamata Anna Caterina Antonacci, elemento di spicco del canto contemporaneo italiano. Si percepisce senza difficoltà nella sua esecuzione uno studio, uno scavo del testo, esplicitato dalla pronuncia francese perfettamente intelligibile, cosa che apparenta la sua Cleopatra alle eroine del teatro francese in prosa, classico e barocco. La grande scuola di dizione e recitazione di cui fa sfoggio, derivatale dalla lunga frequentazione col repertorio francese (sempre a Torino è stata acclamata per La voix humaine di Poulenc, Teatro Regio, maggio 2018) è messa a frutto in una lettura della pagina berlioziana che, soprattutto nel finale, in quel tornire e scandire le sillabe, staccate come dai respiri spezzati di Cleopatra morente, ha contribuito a un'esecuzione di sicuro e plastico realismo. La consumata tecnica vocale si pone come solida base per l'impostazione del canto della Antonacci, non più freschissimo, sebbene in grado ancora di sostenere acuti e sforzati, senza mostrare segni di incertezza né nel registro grave, né in quello acuto. Calante a tratti il volume, che condiziona l'afflato interpretativo: si ha l'idea di una voce velata dalla stanchezza, piena di dignità ma non così travolgente e squillante come ai tempi d'oro (rari ma presenti i passaggi coperti dall'orchestra). D'altronde, la scelta stessa di presentare La mort de Cléopâtre testimonia, ad avviso dello scrivente, la consapevolezza di questa condizione. Il ruolo di Cleopatra non prevede infatti impennate, gorgheggi o acrobazie vocali insormontabili, e fa del declamato, più che del virtuosismo, la sua caratteristica più comunicativa. Cosa nella quale la Antonacci, si ribadisce, eccelle.
Conclude la serata una più convenzionale Quinta sinfonia di Gustav Mahler, la cui frequenza nelle sale da concerto è condizionata non tanto dalla fama (insieme alla Prima è la più eseguita del corpus sinfonico mahleriano, soprattutto per il suo Adagietto, reso celebre da Luchino Visconti come colonna sonora per il suo adattamento cinematografico de La morte a Venezia di Thomas Mann), quanto per la sua durata e per l'impegno fisico degli orchestrali: più di un'ora di sinfonia a piena orchestra, con un organico allargato a legni a quattro, sei corni e una nutrita schiera di percussioni. Procedendo ad un parallelismo, come Le Monde affermò che L'étranger di Camus è «il primo dei cento libri imperdibili del Novecento», così si può dire che la Quinta è la prima sinfonia imperdibile del Novecento. Nacque, infatti, tra il 1901 e il 1902, nei mesi che videro Mahler prima fidanzato e poi marito di Alma Schindler; ma prima che approdasse alla sua versione definitiva, dovettero passare dieci anni. Solo nel 1911, l'anno in cui morì, Mahler fu soddisfatto dell'orchestrazione (la prima volta che la suonò al pianoforte alla moglie, questa disse: «Hai scritto una sinfonia per percussioni»: non la prese molto bene…). La Quinta inaugura il secondo periodo compositivo di Mahler, col ritorno a sinfonie puramente strumentali, senza la voce umana, e può essere vista come il superamento del pessimismo interiore, rappresentato dal blocco dei primi due movimenti (Marcia funebre e Tempestosamente mosso, nel quale già però compare fugacemente il luminoso corale di ottoni che tornerà alla fine), e la conquista della felicità, data dagli ultimi due (Adagietto – la felicità sublime, eterea, ultraterrena – e Rondò-Burleske – la felicità concreta, gioiosa e impertinente: una sorta di binomio apollineo-dionisiaco): due poli che ruotano attorno allo Scherzo centrale, il movimento maledetto che, secondo Mahler, sarebbe stato bistrattato in sæcula sæculorum da direttori e interpreti.
La precisione e la pulizia esecutiva dell'Orchestra Sinfonica Nazionale sono notevoli. L'eccellenza della prima tromba di Roberto Rossi, cui sono demandati i reiterati appelli terzinati della Marcia funebre, è evidente, come pure bellezza e pienezza di suono della sezione degli ottoni, in particolare i corni (e il corno obbligato di Guglielmo Pellarin), chiamati a innervare quasi da cima a fondo il lungo e impegnativo Scherzo centrale (probabilissimi gli scivoloni e le stecche, qui!), nel quale gli archi (splendida la prima viola di Luca Ranieri) scandiscono un pizzicato di notevole espressività. Poco dopo, sempre gli archi, e l'arpa di Margherita Bassani, colgono l'occasione di esprimersi al meglio nell'Adagietto (con la i: ché, senza, diventa un brano strumentale giovanile di Puccini, curiosamente anch'esso in fa maggiore e con identico inciso melodico d'attacco: coincidenze?), laddove l'attenzione del pubblico è maggiormente catalizzata, sia per l'innegabile fascinazione melodica, sia per il timbro delicato, che, dopo quasi tre quarti d'ora di percussioni, suona come un'oasi di riposo per le orecchie.
A fronte del dato esecutivo ineccepibile, lo stesso non si può dire di quello interpretativo. Lo spirito mahleriano pare non aver pervaso del tutto cuore e mente di Gardner, che opera sulla partitura uno scavo appena accennato. Nell'impossibilità di elencare tutti i punti in cui meritevoli di commento, positivo o negativo, si procederà per cenni sparsi. Accenti e sforzati, di cui ogni movimento è costellato e che hanno gran peso nella fisionomia e nella personalità delle frasi musicali, paiono essere deliberatamente ignorati. La terzina d'attacco dei tre do diesis ribattuti della tromba, molto veloce, assimilabile quasi a un'unica nota, cambia di velocità durante la Marcia funebre, forse per adattarsi all'esecuzione che passa ad altri strumenti, senza che ciò, si badi, sia esplicitato in partitura. Le dinamiche percorrono un comodo e rassicurante sentiero ampiamente battuto, con tempi che si attestano nella media di molte esecuzioni… nella media; ma l'Adagietto, di Adagio, anzi, di Sehr Langsam, cioè di Molto lento (Molto, attenzione), conserva poco, trasformandosi, nella sezione centrale, quasi in un Andante, cosa che sottrae buona parte della poesia del brano. A compensare questi deficit vengono in soccorso sottolineature melodiche e strumentali inusuali, che gettano luce su pieghe quasi sempre nascoste della partitura. Uno dei pochi pregi della direzione di Gardner. Sì, perché si staglia soprattutto nell'insieme l'impressione di un'esecuzione poco curata nei dettagli, con numerosi passaggi eseguiti tanto per andare avanti, a volte un poco accelerati come per scivolarci sopra. E se si pensa che il compositore era noto per la sua grandissima arte direttoriale, non si può esimere dal pensare che ogni sua composizione fosse pensata già diretta in modo particolarmente espressivo, le due cose essendo, nell'immaginazione creativa, non mai disgiunte. Dirigere sinfonie come questa significa quasi entrare nel processo compositivo per poi renderne una visione direttoriale. Qualcosa di complicato, senza dubbio, ma di obbligatorio. «Potessi dirigere le mie Sinfonie a cinquant'anni dalla mia morte!» scriveva Mahler. Creda, Herr Mahler, lo vorremmo in tanti.
Christian Speranza
15/3/2019
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