Un Antonio non proprio bello
Da sinistra: Giancarlo Zanetti e Andrea Giordana.
Moltissime volte abbiamo espresso le nostre riserve sulle riduzioni teatrali di romanzi, operate quasi sempre in nome di un'oscura logica dalle finalità imperscrutabili, come se il panorama mondiale non avesse commedie, drammi e tragedie sufficienti a colmare tutte le stagioni teatrali da qui all'eternità. Sì, perché, a differenza del racconto o della novella, e in questo caso deve essere lo stesso autore a compiere la riduzione per ottenere validi risultati (vedi Pirandello), il romanzo, per la sua struttura densa di ponti narrativi difficilmente assimilabili al dialogo e da esso sostituibili, genera pièce teatrali dove l'azione non riesce a condensarsi in maniera efficace e dove i dialoghi, vicari della narrazione, si stiracchiano spesso in monologhi non solo noiosi, ma diluenti e stiracchianti il drama a tutto favore di una verbosità che nemmeno attori di grande classe riescono a rendere avvincente.
A chi volesse obiettare che gli stessi limiti vanno ascritti alla riduzione cinematografica, si potrebbe rispondere che la macchina da presa consente costruzioni a flash-back e salti temporali pochissimo agevoli per il teatro, oltre all'uso di vari espedienti narrativi resi attuabili dalle grandi masse di comparse che possono essere utilizzate, ai lunghi passaggi muti che sfruttano il paesaggio o comunque ambienti esterni per far procedere il tempo, slargarlo o ridurlo, in una maniera assolutamente preclusa al palcoscenico teatrale.
Detto ciò, non stupisce che la riduzione teatrale de Il bell'Antonio di Vitaliano Brancati, operata dalla figlia del romanziere, Antonia, e da Simona Celi, abbia lasciato indifferente non solo chi scrive, ma anche il numeroso pubblico che il 23 dicembre affollava la sala del Verga di Catania.
La regia di Giancarlo Sepe, optando per un impianto dove il lugubre nero delle scene di Carlo De Marino si univa alle fredde luci di Franco Ferrari costruendo una sorta di cattedrale-castello gotico-salone gattopardesco, forzava al contempo gli attori in una recitazione a metà tra l'espressionista e il didattico, per meglio intenderci tra Jonesco e Brecht, dove della levità ironica di Brancati poco o nulla restava, ipertrofizzando invece un aspetto surreale e grottesco, favorito dalla recitazione quasi straniata e dalla dizione eccessivamente impostata, abbastanza estraneo alla vicenda del povero Antonio, reso dal giovane Luchino Giordana, qui più simile ad un nevrastenico che al malinconico ragazzo, a disagio nel gallismo siciliano, così ben tratteggiato dall'autore di Don Giovanni in Sicilia .
Anche le figure del padre e della madre del giovane, interpretate da Andrea Giordana e Elena Callegari con buona professionalità, non sfuggivano ad una sorta di patologizzazione del gallismo, il che li rendeva scarsamente credibili, quando non esagitati o legnosi, cosa che veniva ampiamente agevolata da una gestualità quasi sempre affettata e ridondante come la loro vocalità. Lo stesso potrebbe dirsi di tutte le figure di contorno, dall'algida Barbara Puglisi (Giorgia Visani), moglie di Antonio, dal taglio troppo duro e univoco, ridotta ad una scema nella prima parte e ad un'arpia avida di denaro nella seconda, alla marionettistica Elena Ardizzone, zitella innamorata di Antonio e sempre accompagnata dal padre, quasi macchiettistico nel suo presentarsi in scena o accompagnato da un vassoio di pasticcini o abbigliato con fez e uniforme fascista; i due attori, Simona Celi e Natale Russo, facevano del loro meglio, ma non si riusciva a non avvertirli come fuori posto, non solo nella vicenda, ma anche e soprattutto all'interno dell'impianto registico.
Le stesse incongruenze manifestavano lo zio di Antonio, impersonato dal bravo Giancarlo Zanetti, e padre Raffaele, interpretato da Alessandro Romano, come anche Michele De Marchi, nelle vesti del notaio Puglisi, il padre di Barbara: figure tutte sfasate non solo rispetto al romanzo, ma anche alla stessa messa in scena, che sembrava vivere di un'incongruenza di fondo tra la cupa atmosfera da Venerdì Santo nella quale gli attori si muovevano e la loro recitazione, sempre in bilico tra un naturalismo eccessivo e uno straniamento talvolta ipertrofizzato dalla stessa distribuzione sul palcoscenico. Basti per tutte la presenza delle due donne, Barbara e Elena, immobili, sedute su panche ai lati della scena durante una buona parte del primo atto, mentre si decanta la virilità di Antonio, con un espediente dunque assolutamente brechtiano, e Barbara e Antonio che danzano sul fondo della scena mentre i genitori prendono accordi per il matrimonio. Accorgimenti che sulla carta avrebbero forse voluto dare profondità alla vicenda, ma che sono rimasti di fatto afunzionali e gratuiti, generando perplessità proprio come la tenda mobile che ruotava insieme ai personaggi con ritmi poco comprensibili.
Anche le musiche di Harmonia Team contribuivano a creare uno spaesamento di fondo: dure e taglienti, ammiccavano di fatto ad un teatro altro rispetto al milieu dal quale nascevano i romanzi di Vitaliano Brancati, tipicamente siciliano e catanese in particolare, poco adatto a trapiantarsi in un altrove spazio temporale come ha tentato il regista.
Applausi non molto convinti alla fine del primo atto, e poco più che di cortesia alla fine della rappresentazione.
Giuliana Cutore
26/12/2014
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