Il ritorno del Salvatore
Il teatro contemporaneo, quando è realmente valido, riesce a offrire una visione diversa e altra del nostro mondo, delle nostre convinzioni, di tutto ciò insomma che la tradizione ritiene assolutamente valido per ogni tempo e sotto qualunque latitudine. Ciò che è fondamentale, nel teatro contemporaneo, è il testo, che deve rispondere a due esigenze primarie: da un lato far emergere lentamente ma inesorabilmente il messaggio, e qui hanno notevole importanza anche la professionalità degli attori e le scelte espressive del regista, dall'altro evitare sia le secche dello sperimentalismo fine a se stesso sia il ripiegarsi del linguaggio su schemi tradizionali. In tal senso, è stata davvero una sorpresa Aquiloni, un testo scritto a più mani da Nicola Alberto Orofino, Francesco Bernava e Alice Sgroi, regista e protagonisti dello spettacolo andato in scena al Piccolo Teatro di Catania il 3 marzo, con replica il 4. Il lavoro, vincitore del “Premio Nazionale Teatro Città di Leonforte 2017”, narra con scarni ma pregnanti mezzi scenografici, curati da Arsinoe Delacroix, una storia che sin dalle prime battute sembra nascere sotto il segno dell'ambiguità, soprattutto semantica: gli spettatori, accolti prima ancora che la rappresentazione cominci, dalle note de La traviata di Giuseppe Verdi, assistono a uno strano battibecco tra un tizio apparentemente fuori di testa e che non fa altro che lamentarsi per il freddo, e una donna sul cui mestiere, antico come il mondo, non c'è dubbio alcuno. Salvatore, Salvo, lui, e Maria, detta Maddy, lei, imbastiscono pian piano un dialogo che inizia a configurarsi come una foresta di simboli: Maddy è una prostituta che non si piange addosso, ma considera il suo un lavoro come un altro, segnato da inconvenienti professionali, piccoli trucchi, giorni di riposo. Si guadagna da vivere lavorando, tutto qui; ha una figlia, che si chiama Angela, tranquilli ricordi d'infanzia, e per lei gli uomini sono un libro aperto, perché ne conosce desideri, vizi, gusti e disgusti. Eppure non riesce a capire Salvatore (Salvo), apparentemente impermeabile al sesso, che afferma di essere figlio di una suora e di aver sempre vissuto in un convento, che trova banconote per terra, ma delle quali afferma di non avere nessun bisogno. L'uomo la incuriosisce sempre più, rende immediatamente reali i suoi sogni, fa spuntare dal nulla doni, fa piovere soldi, ma ancora Maddy non lo capisce, pur se comincia a sentirsi sempre più legata a lui, quasi le loro storie fossero complementari.
Vagabondo del mondo, simile al Matto dei Tarocchi, l'uomo continua a insistere sul fatto di non volersi più chiamare Salvatore, ma Salvo: dice di aver salvato, ma di voler essere ormai solo Salvo e nulla più. Ama le monache, ma non i preti, non vuol essere più di nessuno, vuole appartenere solo a se stesso, e afferma di essere solo all'inizio della sua resurrezione. Chiede del pane e dell'acqua, e Maddy, brontolando, glieli dà. La verità si apre uno squarcio all'improvviso, quando il pane si raddoppia e l'acqua diventa vino: Maddy cade in ginocchio, lo riconosce e riconosce se stessa, rivive un legame antichissimo che li avvince per l'eternità e insieme a un mondo terreno che entrambi non sanno o forse non vogliono abbandonare del tutto.
Il Salvatore è tornato, ma come Lazzaro sembra deluso di essere risorto, e non vuole più salvare nessuno. Perché? Domanda senza risposta, alla quale ogni spettatore può forse dare la propria; Cristo è deluso dei suoi ministri, ma non dell'uomo col quale vuole comunque continuare a vivere? È Salvo, adesso, perché ha salvato se stesso, rifugiandosi tra i diseredati, lontano dai preti? È la forza del suo oscuro legame con la Maddalena, personificazione della carnalità, che lo riporta all'esistenza? O forse non ha più nulla da spartire con ciò che i preti hanno fatto del suo messaggio originario? Di certo c'è soltanto che Salvo e Maddy si sono come rifugiati in una zona franca dell'esistenza, dove ognuno accetta l'altro e se stesso senza più chiedersi perché, contentandosi di vivere aspirando al cielo ma rimanendo ancorati alla terra, appunto come gli aquiloni…
Un testo eccellente, a tratti commovente nella sua semplicità, dove le risposte generate dalle domande sembrano emergere con estrema naturalezza, cui ha giovato molto anche la recitazione parte in dialetto siciliano, parte con dizione volutamente sporca, ma sempre perfettamente comprensibile, quasi a sottolineare una quotidianità popolare, molto vicina a quella dei semplici medievali, quanto mai prossima alla reale essenza del messaggio di Cristo.
Alice Sgroi, Maddy, ha tratteggiato una donna concreta e realistica, interpretando il suo personaggio con un naturalismo scevro da qualsiasi volgarità, affidandosi alla mimica e alla gestualità prorompente per rendere tutta la carnalità ancestrale della Maddalena. Francesco Bernava ha delineato un Salvatore a metà tra il disincanto e il distacco, trapassando con naturalezza dalla voluta ingenuità all'empatica partecipazione alle vicende di Maddy, per approdare infine al commiato ieratico del disvelamento finale, quando il corpo nel sepolcro mostrato da Maddy agli spettatori additerà l'ultimo messaggio della pièce: quel che alcuni uomini hanno fatto di Cristo è solo un corpo morto, che nulla ha a che vedere con l'essenza viva e palpitante del messaggio del Salvatore.
Giuliana Cutore
4/3/2018
Le foto del servizio sono di Gianluigi Primaverile.
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