RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Le Siège de Corinthe

al Rossini Opera Festival

Il Rossini Opera Festival, per la seconda volta nel corso della sua quasi quarantennale storia, allestisce Le Siège de Corinthe nella versione francese del 1826. Questa tragédie lyrique è, come comunemente risaputo, la trasposizione francese dell'opera Maometto II, andata in scena a Napoli con scarso successo nel 1820. Quando Rossini, stabilitosi definitamente a Parigi dal 1823, ricevette la commissione per un lavoro da parte dell'Opéra, non ebbe dubbi nel riutilizzare materiale precedente. In un primo momento ci fu l'intenzione di prendere di pari lo spartito di Maometto II e trasporlo in francese, ma in seguito ad alcuni rinvii da parte del teatro il compositore rimaneggiò tutta l'opera. Bisogna rilevare che l'odierna versione critica, curata da Damien Colas, non può basarsi sulla versione originale ascoltata nel 1826 poiché nessuna partitura autografa completa è oggi reperibile, esistono solo alcuni frammenti sparsi conservati in biblioteche e collezioni private, e fatto ancor più inspiegabile mancano le copie per cantanti e strumentisti della copisteria del teatro. Compito di Colas è stato dunque quello di ricostruire una partitura partendo dall'edizione “Troupenas” del 1827 e sviluppando il materiale esecutivo ritrovato della versione abbreviata del 1835, facendone i debiti confronti e ricostruendo misura dopo misura e rigo musicale. Una procedura inusitata per la ricostruzione di un'edizione critica operistica. Il risultato di tale monumentale e difficoltoso lavoro è l'edizione proposta oggi al Rof 2017.

Altro aspetto non secondario è ricordare che Le Siège de Corinthe fu la prima opera in francese proposta da Rossini a Parigi, precisamente all'Academie Royale de Musique, e il fatto destava interesse sia nell'ambiente musicale francese sia nella società della capitale. Inoltre le vicende dell'opera furono trasportate a Corinto, città greca, e tale peculiarità faceva eco all'allora contemporanea Guerra d'indipendenza ellenica (1821-1830) della quale l'opinione pubblica, non solo francese, era particolarmente partecipe e appassionata. Con questi presupposti si può affermare, come anche scritto da Colas, che Le Siège de Corinthe fu una delle prime opere liriche direttamente collegate all'attualità storica. A differenza di Maometto II, Le Siège de Corinthe (o L'assedio di Corinto, nella successiva traduzione italiana) non fu opera totalmente dimenticata, fu rappresentato fino al 1870 circa (anche se in versioni mutilate o pasticciate), in seguito vi furono alcune riprese all'inizio degli anni '50 del XX secolo e qualche esecuzione radiofonica. Si dovrà arrivare al 1969, con le celeberrime recite scaligere dirette da Schippers (protagoniste le sensazionali Beverly Sills e Marilyn Horne), per cominciare a parlare di una nuova riscoperta dell'opera. Sarà allestito anche al Matropolitan Theatre di New York per numerose rappresentazioni ed è stata prodotta anche un'incisione discografica in studio. Tuttavia, tali esecuzioni non possono dirsi filologiche poiché erano delle edizioni "miste" contenendo brani da Maometto II (sia nella versione napoletana sia veneziana), dall'Assedio di Corinto nella versione italiana dal francese e arie da Aureliano in Palmira e una da Pacini, quest'ultima per mettere in luce le doti della Sills (come ce ne fosse stata la necessità). Questo solo dal punto di vista dell'edizione, perché per quanto concerne il valore musicale (Schippers) e canoro (le predette cantanti) credo non ci siano paragoni per le vette raggiunte.

La nuova produzione de Le Siège de Corinthe che ha aperto la XXXVIII edizione del Festival è stata affidata a Carlus Padrissa, del collettivo catalano La Fura dels Baus, assieme alla pittrice e videoartista Lita Cabellut. Per La Fura si tratta del debutto al Festival pesarese e anche nel repertorio rossiniano. Purtroppo dal folgorante Ring fiorentino non abbiamo più avuto modo di parlare della Fura con toni entusiastici, e la realizzazione pesarese si colloca tra le produzioni meno riuscite. Attraverso un comunicato apprendiamo, ma in parte era comprensibile, che “l'idea alla base della messinscena è la Guerra, una presenza costante nella storia dell'umanità, nel corso della quale ci si combatte continuamente per i più svariati motivi: il potere, il denaro, la terra, lo spazio. Nello spettacolo l'elemento per cui si combatte è l'acqua, simboleggiata da muri di bottiglie di plastica disseminate sulla scena. La vicenda si svolge su un terreno arido e salato, l'ambientazione è volutamente atemporale e i costumi che indossano i due popoli (Greci e Turchi) si differenziano solo per le macchie di sangue che imbrattano i costumi dei Turchi”.

Considerazioni che sulla carta possiamo condividere, meno quando si assiste al prodotto teatrale. Per simboleggiare l'acqua si utilizzano innumerevoli bottiglioni di plastica, quelli che si trovano capovolti sui dosatori automatici negli uffici. Corinto è raffigurata da pareti composte di queste bottiglie, all'occorrenza disposte in maniera diversa. Non è chiara l'idea di far circolare per la platea figuranti con le bottiglie in spalla, e quando questi raggiungono il molto ridimensionato palcoscenico, l'acqua sarà versata in ipotetiche cisterne sotterranee. È comprensibile che l'acqua da sempre sia un elemento fondamentale per la vita sul pianeta ma non è il tema della guerra tra greci e turchi, la quale si svolge su tutt'altro terreno come dimostrato dal libretto e dalla storia. L' idea di attualizzare l'opera considerando che oggi in quelle regioni l'acqua è elemento indispensabile mi sembra ridicola e superflua, semmai la notizia sarebbe lo scioglimento dei ghiacciai nella regione artica. Si sarebbe potuto attualizzare la drammaturgia nella contrapposizione tra estremismo islamico e mondo occidentale, ma presumo che anche in questo caso si sarebbe scesi nel banale. E allora perché non lasciare un libretto e un'opera tali e quali pretenderebbero di essere, pur con la fantasia e in parte la bizzarra inventiva che il collettivo spagnolo da sempre ha dimostrato? Forse troppo si pretende. Lo spettacolo non lascia grande traccia per una somma d'intrinsechi significati che ognuno interpreta a modo suo dovendo ipotizzare. Non metto in dubbio il talento di Lita Cabellut ma i dieci grandi ritratti che campeggiavano prima sul palcoscenico poi per la platea chi e cosa volevano rappresentare? Di elementi scenografici non è il caso di parlare, piuttosto impressionava il surreale palcoscenico, le calibrate luci e video designer, ma ancor più i cromatismi atemporali dei costumi, questi sì che potevano essere pertinenti. La regia di Carlus Padrissa è scarsa d'idee e soluzioni non certo originali. Troppe scene realizzate sulla passerella che circoscrive la buca dell'orchestra, e in platea. Ma perché non utilizzare il palcoscenico? Che oltretutto all'Adriatic Arena è piuttosto grande! Il continuo spostamento del coro, sempre in platea ora a destra ora sinistra, disturba poiché sulla scena nulla succede in contemporanea. Quanto ai singoli interpreti non si possono registrare particolari soluzioni, piuttosto sommaria recitazione. Infine, è parsa superflua e dozzinale la proiezione d'interi brani letterari di Lord Byron sullo schermo poiché nulla avevano in comune con l'opera di Rossini oltre ad essere di difficile lettura. Un'attenuante potrebbe essere quella che il poeta partecipò alla suddetta guerra d'indipendenza greca nell'Ottocento, ma fosse anche questa la chiave di lettura mi pare alquanto dozzinale.

Debuttava al Rof l'Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai, in sostituzione a quella del Comunale di Bologna recentemente defilatasi, con Roberto Abbado direttore e maestro concertatore. Egli si conferma direttore di rango anche in campo rossiniano, sia per le prove precedenti, sia in quest'occasione. Abbado punta, giustamente, alla monumentalità dell'opera tenendo sempre contenuta e incisiva la sonorità. Il ritmo è incalzante, il tempo sostenuto, i colori e le dinamiche ben accentati, elementi che determinano una lettura emotiva e di forte fascino drammatico. L'orchestra asseconda a meraviglia il maestro in una lettura ove il variegato schema dell'orchestrazione è mutevole secondo i brani ma scolpisce l'epicità della partitura e il tragico evolvere degli eventi nei quali prevale il sentimento patriottico, che appassiona nella misura che un ensemble e una bacchetta possano dialogare nei colori e nelle frementi sonorità senza accensioni strabordanti com'è stato magnificamente eseguito a Pesaro. Altra novità rilevante è stata la prova del Coro del Teatro Ventidio Basso di Ascoli Piceno, istruito da Giovanni Farina, che ha dimostrato una brillantezza d'assieme ragguardevole, assieme a una professionalità esecutiva ammirevole per la solida tenuta e omogenea impostazione resisi concreti nella scena del terzo atto con l'invettiva di Hiéros.

Tra gli interpreti si segnala la brillante prova di Luca Pisaroni, Mahomet II, il quale attraverso una voce scura, una particolare perizia in accento e fraseggio e una buona tenuta nella coloratura tratteggiava significativamente il condottiero musulmano senza per questo dimostrarsi meno efficace nei brevi sprazzi romantici con la protagonista femminile. Nino Machaidze, Pamyra, è anche professionale ma decisamente fuori parte poiché il registro acuto è molto ridimensionato rispetto a un tempo, accenti non scanditi, assenza di colori, e non emerge nei momenti di grande primadonna che la partitura le offre, in particolare la celebre preghiera, cui va sommata una dizione incomprensibile. Sergey Romanovsky, Néoclés, potrebbe far ravvisare futuri più rosei se riuscisse a trovare una linea di canto più compatta, senza scivolare nel falsetto, e sapesse capacitarsi nel dispensare adeguatamente le energie, poiché nella grande aria del III atto era piuttosto affaticato. Meglio l'altro tenore John Irvin, Cléomène, che trovava distinguo dal collega con una voce più baritonale, e dimostrava accenti efficaci e una linea di canto più omogenea. Molto positiva la prova di Carlo Cigni, Hiéros, di austera e autorevole presenza scenica accomunata a un canto drammatico e incisivo soprattutto nell'invettiva finale con ottimi risultati per tenuta e robustezza di voce. Nelle parti minori Iurii Samoilov, Omar, tratteggiava un sicuro personaggio, Xabier Anduaga era un interessante Adraste, mentre Cecilia Molinari era un'anonima Ismène per scarsa incisività canora.

Lukas Franceschini

18/8/2017

Le foto del servizio sono dello Studio Amati Bracciardi di Pesaro.