Da Salisburgo a Leningrado
Se il programma originale del diciassettesimo appuntamento con l'OSN (20 e 21 marzo 2014), licenziato a inizio stagione, riportava il Concerto per viola e orchestra di Bartók e la Settima Sinfonia di Šostakovic, all'ultimo si è optato invece per programmare, accanto al capolavoro del maestro russo, la Sinfonia Concertante per violino, viola e orchestra K 364 di Mozart. Tant mieux: la viola è rimasta protagonista (e con un solista d'eccezione: Yuri Bashmet, in duo col violinista Viktor Tretiakov), e il concerto ne ha ricavato sicuro beneficio, anche perché, puntando su Mozart, il successo è garantito.
Sul podio è salito John Axelrod, ospite abituale dell'OSN, chiamato l'ultima volta a chiudere la stagione 2012-2013; la sua predilezione per la grande orchestra, tuttavia, per pagine dal forte impatto sonoro (ricordiamo un'esaltante esecuzione dell' Ottava Sinfonia di Dvorák nel 2013 e della Nona Sinfonia di Mahler nel 2011), lo portano a mal calibrare le forze orchestrali nella Concertante: questo brano, scritto a Salisburgo tra l'agosto e il settembre del 1779, pochi mesi dopo il viaggio disastroso a Parigi, nasce come tanti altri per l'orchestra del principe-arcivescovo Colloredo, un'orchestra modesta, di certo non in grado di comprendere, interpretare e contenere la straripante genialità dell'allora ventitreenne Wolfgang, in un periodo in cui, tra l'altro, forte sentiva la spinta a sperimentare il dialogo tra due solisti e orchestra (contemporanei alla Concertante sono infatti il Concerto per due pianoforti K 365, un incompiuto Concerto per violino e pianoforte, mentre di poco precedente è il Concerto per flauto e arpa K 299, risalente al soggiorno parigino): la scelta di usare quattro contrabbassi – e il resto degli archi in numero proporzionale, cioè quaranta archi in tutto – ci è sembrata, da parte di Axelrod, poco filologica, esagerata, considerando che i fiati richiesti in partitura si limitano a due oboi e due corni. In linea con questa tendenza, la direzione è stata improntata quasi sempre alla grandiosità: l'Allegro maestoso gioca abilmente la carta del maestoso, facendone il punto di forza, cui però si è contrapposta, da parte dei solisti, una cadenza dai toni smorzati, a mezza luce, che, pur basandosi su divagazioni poco attinenti al materiale tematico mozartiano, ha evidenziato l'altissima coesione e del violino di Tretiakov e della viola di Bashmet, dando quasi l'impressione di udire un unico strumento ad arco dotato di una maggiore estensione. Una direzione che potremmo definire “romantica”, laddove però Mozart “romantico” non è, fatta eccezione per il toccante Andante in do minore, cuore della Concertante, in cui si assiste, come in pochi altri casi nel repertorio mozartiano, ad un ripiegamento intimo e dolente di una vena compositiva altrimenti sempre gioviale e spontanea (paragonabile forse solo all'Adagio del Concerto K 488): ben venga, quindi, la tendenza di Axelrod ad enfatizzare i passaggi orchestrali più espressivi, in un'interpretazione, per dirla col Beethoven del Chiaro di luna, condotta con intimissimo sentimento, che, senza indulgere nella pensosità degli Adagi bruckneriani, ha saputo dare la giusta nuance a questo notturno ante litteram.
L'atmosfera torna a farsi serena nel saltellante Presto conclusivo, nel tempo agile di 2/4, spesso utilizzato per i finali. L'impressione che però ci viene trasmessa è quella di un Mozart allegro, sì, ma non spumeggiante, come se l'allegria fosse in realtà solo di facciata, una maschera per nascondere tutt'altro genere di sentimenti (come spesso accade di dover fare nella vita, no?), un Mozart serioso che gioca a fare lo spensierato; impressione che però si attenua verso la conclusione, dove si può davvero concludere l'ascolto con un sorriso sincero.
Nulla da eccepire su due solisti come Tretiakov e Bashmet, entrambi con curricula eccezionalmente nutriti di riconoscimenti e premi, dedicatario, il secondo, di alcune composizioni di Alfred Schnittke, tra cui l'aspro, dissonante, ma a suo modo sublime, Concerto per viola e orchestra. Ci si duole di un applauso non particolarmente sentito, a causa anche di una sala non completamente piena (riferendosi alla serata di giovedì 20 marzo), cosa che forse ha indotto i solisti a non concedere alcun encore.
Da Salisburgo a Leningrado è bastato il tempo di un intervallo: e la maestosità compiaciuta del primo tema della Settima di Šostakovic ha invaso l'auditorium con la potenza di tutti gli archi all'unisono, estesi ad un numero considerevole dalla prima alla seconda parte del concerto. L'Allegretto d'apertura (quale differenza, curiosamente, tra l'Allegretto della Settima di Šostakovic e l'Allegretto della Settima di… Beethoven!) ha permesso ad Axelrod, più a suo agio secondo noi con partiture di questo tipo, di sfoderare il suo talento per la massa orchestrale, dimostrando il polso necessario a dominare la sinfonia più grande e ambiziosa composta fino a quel momento (1941-42) dal compositore che proprio in Leningrado (chiamata così dal 1924 al 1991, ex Pietrogrado dal 1914 al 1924 e odierna San Pietroburgo) ricevette i natali nel 1906 e che per la sua città prodigò non solo un impegno intellettuale ma anche fisico: celebre è la fotografia di Šostakovic sul tetto del Conservatorio, in tenuta da pompiere, proprio negli anni dell'assedio nazista. In vista della sezione dedicata al “tema dell'assedio”, ripetuto 12 volte con orchestrazione sempre crescente sul modello del Boléro di Ravel, Axelrod ha preferito porre il rullante non nella consueta posizione delle percussioni, in ultima fila, ma al centro, direttamente davanti al podio, in modo da farne risaltare l'importanza nella scansione del ritmo (sempre uguale per circa 300 battute!), richiedendo però un solo strumento, anziché i due e poi i tre indicati ad libitum in partitura. Axelrod predilige la tendenza al grandioso, dimostrando la reale portata del genio visionario di Šostakovic specialmente nel primo e nel quarto movimento, dove la bravura è consistita non già nel clangore dell'insieme, ma nel dare il giusto risalto alle varie componenti (e stiamo parlando partitura alla mano, seguita durante l'esecuzione): in alcuni momenti la scrittura diviene così densa, infatti, che vi è una netta prevalenza di strumenti dedicati all'accompagnamento su quelli dedicati al tema: e far risaltare questi strumenti sugli altri implica avere una notevole visione d'insieme della pagina orchestrale. Nei movimenti intermedi, invece, convince la capacità di saper evocare un clima di stasi, dopo il mastodonte iniziale e l'impegnativa domanda d'ascolto che impone: attenzione, però, a non indulgere troppo in questo clima, che non deve mai diventare languoroso (è pur sempre Šostakovic!) come invece abbiamo avvertito. Tornano infatti ad essere convincenti le sezioni centrali del Moderato e dell' Adagio, là dove la tensione risale e si respira l'inquietudine tipica di molte pagine šostakoviciane.
Segnaliamo, infine, Sinfonia Leningrado, romanzo di Sarah Quigley del 2011 (titolo originale: The conductor), che racconta, utilizzando come protagonisti personaggi realmente esistiti, quali Eliasberg, primo direttore russo della Settima, Sollertinskij, direttore artistico della Filarmonica di Leningrado, e Šostakovic stesso, coi figli Maksim e Galina e la moglie Nina, il clima di terrore generato dallo spauracchio dei bombardamenti aerei, metodo di attacco tanto strategico, quanto vigliacco, specialmente se utilizzato sui civili. Tra gli altri, questo libro ha il pregio di mostrarci la figura di un compositore come Šostakovic, di cui spesso applaudiamo le composizioni (e che potremmo assumere a simbolo di tutti i compositori che ammiriamo), dal lato umano, spesso messo in ombra dalla genialità delle sue creazioni: un libro tra realtà e fantasia, tra storia vera e storia inventata, dalla scrittura fluida e godibilissima, che offre una panoramica sugli eventi storici e artistici attorno alla nascita e alla prima esecuzione della Leningrado a Leningrado.
Christian Speranza
15/4/2014
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