RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Un'impossibile trascendenza

Ciò che davvero conta, giace nell'ombra: questa potrebbe essere la chiave interpretativa di Trilogia dell'estasi, il balletto su drammaturgia di Nello Calabrò e con la coreografia di Roberto Zappalà (che ha curato anche la regia, le scene, le luci e i costumi, questi ultimi con la collaborazione di Veronica Cornacchini), andato in scena al Bellini di Catania il 6 ottobre, con repliche fino al 13. Lo spettacolo, che ha iniziato la sua tournée il 30 maggio presso il Teatro del Maggio Musicale Fiorentino di Firenze con enorme successo, proseguirà il suo tour italiano fino al 2025, concludendo presso il Teatro Verdi di Pordenone.

Trilogia dell'estasi trascorre lungo tre capisaldi del balletto novecentesco, Prelude all'après-midi d'un faune di Claude Debussy, Boléro di Maurice Ravel e Le Sacre du printemps di Igor Stravinskij, legati tra loro da brani techno di Tujamo, Vinne e Murotani che introducono e in un certo senso raccordano i tre balletti principali, in una circolarità che a partire dal secondo movimento (Boléro) si esplicita e complica nella scritta al neon Ring che si illumina sul palcoscenico. Ring come circolarità eterna, come forse impossibile anelito a un'estasi che non sia puramente fisica, l'unica a ben vedere possibile all'essere umano, giacché anche l'estasi mistica nasce da una fisicità deprivata e illusa, al confine col patologico e col nevrotico, ma anche Ring come spazio di lotta, di sangue, di violenza, di rito sacrificale, come forse già addita il fiore purpureo all'altezza dell'inguine del danzatore che interpreta magistralmente, con una tecnica scultorea, il bucolico, ma non troppo, brano di Debussy.

Lo spettacolo di Calabrò-Zappalà, sin dalle sue prime battute, si delinea come una foresta di simboli allusiva ed elusiva che, pur partendo da due spunti drammaturgici espliciti, un fatto di stupro di gruppo avvenuto nel 2020 e il rimando all'iconica scena del rituale-orgia di Eyes Wide Shut di Stanley Kubrick (che già aveva connotato con brani classici i movimenti del suo film più visionario, 2001, Odissea nello spazio), con le sue dorate maschere inquietanti che si ripropongono nel Boléro, si apre con immobili capri cornuti che, ritraendosi sul fondo per lasciare spazio al Fauno, rimarranno nell'ombra, guardiani e spettatori, per tutto lo spettacolo, fino a riemergere in tutta la loro tellurica forza nel Sacre, dove uno di essi giganteggerà sui danzatori ormai preda di un delirio orgiastico che segna il culmine dell'estasi fisica. Un capro, la cui possanza statuaria ha ricordato a chi scrive il temibile Arcano XV, il Diavolo, dei Tarocchi di Aleister Crowley, dipinti su indicazioni dell'esoterista che amava definirsi la Bestia 666 dell'Apocalisse, dall'artista visionaria Frieda Harris, che ha realizzato senza dubbio uno dei mazzi di carte da divinazione più inquietanti e più densamente simbolici che esistano. L'Arcano XV, nella figurazione della Harris, vede appunto un enorme caprone che campeggia su due uova cosmiche chiuse ermeticamente, al cui interno si dibattono nude figure umane, ed è cognizione comune che vada opposto all'Arcano VI, gli Amanti, carta dell'elevazione spirituale quanto il XV lo è della schiavitù degli istinti, del fato ineluttabile, e in genere della fisicità in tutte le sue accezioni. Quel che emerge dal balletto è appunto una carnalità ctonia, dove a poco giovano le distinzioni di sesso, dove i danzatori indossano abiti opposti al loro genere (probabilmente con un occhio di memoria a certi spettacoli di Pippo Del Bono), dove ciò che davvero si ricerca è da un lato un'impossibile trascendenza e dall'altro la conciliazione dell'istinto con la razionalità, ma ciò che si raggiunge è una nuova prigionia, del Capro per un verso, della rete che cade sui danzatori alla fine, metafora di un dualismo spirito-materia dal quale l'uomo non potrà mai liberarsi.

Spettacolo di grande impatto visivo quello realizzato dalla compagnia di danza di Roberto Zappalà, che dimostra come anche la sperimentazione più audace possa legarsi in maniera congruente alla musica classica, illuminandola per così dire dall'interno, e interpretandola in maniera altra rispetto alle convenzioni usuali, portando alla luce tutta quella simbologia che in essa si è stratificata nel corso degli anni: i rimandi a segno potrebbero moltiplicarsi all'infinito, in una circolarità appunto che va dall'antica mitologia, che ben conosceva la triste sorte legata a chi nelle sue scorribande si imbattesse nella nudità di una dea, oltraggio involontario del ctonio all'uranico che si concludeva con la cecità dell'incolpevole, fauno o mortale che fosse (pare che questo sia stato il motivo della cecità di Tiresia, figlio di una ninfa del corteo di Atena), fino al sacrificio umano del Sacre, reinterpretazione forse dei riti di mutilazione legati alla primavera nel culto di Cibele e Attis, passando per l'infuocata sensualità della ridda del Boléro.

L'orchestra del Bellini, guidata da Vitali Alekseenok, ha eseguito i brani rispettando scupolosamente le esigenze coreutiche, imprimendo sempre ritmi serrati ma mai ridondanti, trovando i suoi punti più alti nel Prélude, dove l'arpa è riuscita a creare un dialogo di estrema morbidezza con gli altri strumenti, avvolgendo la scena di un'atmosfera di squisita serenità, e nel Sacre, la cui musicalità tellurica e sanguigna ha amplificato magistralmente il finale dello spettacolo.

Giuliana Cutore

7/10/2024

La foto del servizio è di Giacomo Orlando.