RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

«Giorno non vidi mai…»

È il Macbeth dell'oscurità, quello presentato nel gennaio/febbraio 2023 al Teatro Giuseppe Verdi di Trieste: un Macbeth in cui la luce non compare mai, cupa tragedia dall'inizio alla fine in cui nemmeno l'uccisione finale del tiranno riesce a diradare un senso di angoscia presago di un male forse, chissà, già destinato a perpetuarsi con l'avvento di Malcom e del suo regno. D'altro canto, è lo stesso Verdi a far tralucere il suo pessimismo a diciotto anni di distanza, quando rimette mano alla partitura del 1847 – scritta per il Teatro della Pergola di Firenze, ove andò in scena per la prima volta il 14 marzo – e la rivede per il Théâtre Lyrique di Parigi (19 aprile 1865): se inizialmente il coro Scozia oppressa avrebbe potuto costituire, sebbene un poco forzatamente, una sorta di trittico patriottico di cori, assieme a Va', pensiero (1842) e O Signore, dal tetto natio (1843), con quell'andamento strofico e omofonico che caratterizza la stesura del 1847, un canto nel quale il popolo potesse rispecchiarsi e che potesse intonare facilmente, secondo i dettami mazziniani di musica come strumento coesivo di aggregazione (sebbene Mazzini guardasse più a Donizetti che a Verdi), con la riscrittura del 1865, dove quella oppressa diventa la Patria e non più la Scozia, questo pur vago sospetto scompare, aprendo le porte a un coro disperato, che si unisce solo quando vede il suo dolore propagato per l'infinito, disperso, inascoltato, memore forse dei versi manzoniani dei Longobardi adelchiani.

Il Macbeth dell'oscurità, si diceva. A caratterizzare così questa ripresa del decimo titolo verdiano è la regia di Henning Brockhaus (adattata grazie all'allestimento di Benito Leonori), con scene di Josef Svoboda e costumi di Nanà Cecchi – una coproduzione tra la Fondazione Pergolesi Spontini di Jesi e la Fondazione Teatro Lirico Giuseppe Verdi di Trieste. Semplicità ed efficacia si coniugano, dimostrando che, quando si sa come lavorare, non occorrono mezzi eccessivi. La scena è fissa, vuota, eccezion fatta per il trono di Macbeth a inizio secondo atto, sul quale Macbeth meditabondo riflette sui fatti appena accaduti, un lungo desco non apparecchiato – tovaglia scura bordata d'oro, lunga fino a terra, sedie tutt'attorno – per la scena di brindisi-banchetto-allucinazioni, e poco altro. Tre pannelli verticali sul fondo vengono variamente impiegati come pareti del castello, muri divisori, bosco delle streghe e, grazie anche all'utilizzo discreto di proiezioni di ramaglie, verso la fine diventano anche gli alberi mobili della foresta di Birnam. Gigantografie di teschi adagiate sul fondo aggiungono un tocco surreale: è chiaro fin dall'inizio, e lo sarà ancora di più con l'analisi dei costumi, che si tratti di un allestimento semi-didascalico, che si rifà alle indicazioni librettistiche quel tanto che basta a rendere coerente lo spettacolo: laddove si può inserire qualche dettaglio non previsto ma al contempo non incoerente, ben venga, e pazienza se l'originalità difetta un poco (a meno di non volerci vedere qualche interessante riferimento anatomico, l'associazione teschio-morte, con un regicidio appena avvenuto dietro le quinte, è scontata: ma meglio questo che trovate a dir poco strampalate: ce la ricordiamo tutti la sveltina in ascensore tra Lady Netrebko e Macbeth-Salsi il 7 dicembre 2021 alla Scala? Così di Livermore l'alto (s)consiglio s'adempìa!). Grigio spento i pannelli, grigie le scenografie, grigi pure certi tappeti srotolati durante le scene delle streghe: tutto monocromo, tutto plumbeo. E immerso, si diceva, in una luce anch'essa quasi sempre monocroma, umbratile, fioca. Se un guizzo in più nell'illuminotecnica sarebbe stato auspicabile, a parte qualche occhio di bue qua e là, è pur vero che così ci si cala maggiormente nel mood dell'opera, che si rivela soprattutto – e questo già a partire dall'impostazione verdiana, sulla scorta della fonte del Bardo – un viaggio nella psiche alterata dei personaggi.

A proposito di costumi, si diceva: si viene a chiarire qui la duplice lettura possibile dello spettacolo, didascalica e allegorica. Quasi tutti i personaggi indossano vesti grigie, dal grigio topo al grigio scuro, a parte Macbeth, nerovestito. I visi sono bianchi come quelle dei proverbiali mimi francesi. Se si concepisce Macbeth come stretto nella morsa delle streghe da una parte, simbolo del futuro, dell'angoscia per esso, e dalla moglie dall'altro, simbolo dell'ambizione, della sete di potere, dall'altro, e se si pone attenzione al fatto che in tutta l'opera le streghe e Lady Macbeth non si incontrano mai, come poli opposti, appare intuitiva la lezione di Nanà Cecchi nell'attribuire alle streghe e alla Lady la stessa mise: accomunate dall'oggetto verso cui converge la loro opera, cioè Macbeth stesso. Lo scrivente si aduggia di non sapere se questo sia stata idea della costumista o di Brockhaus, già collaboratore di Strehler e con profondi studi musicali alle spalle (clarinetto e composizione): ma, sia come sia, voluta o meno, si tratta di un'interpretazione accattivante. Per la verità le due parti femminili si incontrano, ma solo nel piano dell'inconscio e solo in questa versione registica: quando cioè Lady Macbeth, sonnambula, mentre canta, dopo aver deposto due bugie con candele accese ma «presso a finir» accanto al trono rovesciato (simbolo del potere ormai sfuggito di mano), reggendo in mano una lampada e spalancando davvero gli occhi, in perfetto accordo con le indicazioni di Piave, viene accerchiata dalle streghe, che fluttuano e strisciano attorno a lei, spettri dell'insonnia (coreografie di Valentina Escobar). (Scendendo sul piano squisitamente musicale, le triplici ripetizioni delle figurazioni ritmiche in 6/8, simboli trinitari ma al contempo antitrinitari e quindi demoniaci, accomunano già in partitura Lady e streghe nei loro passaggi…).

Per quanto riguarda la scelta della versione eseguita, è lo stesso direttore, Fabrizio Maria Carminati, a dichiarare nel programma di sala che si tratta di una commistione delle due, '47 e '65, basate sulle Edizioni E.F.Kalmus & Co. di New York: «L'allestimento di questa produzione […] non prevede i ballabili scritti per la versione francese del '65 e Coro ballabile Ondine e Silfidi, introducendo l'aria di Lady La luce langue in sostituzione della cabaletta Trionfai! Securi al fine, il Coro Patria oppressa ed il finale del quarto atto». Sostanzialmente una versione quasi-1865, che per fortuna rinuncia a incollare, cosa frequente, il finale del 1847, Mal per me che m'affidai, concettualmente diverso. La scelta fa storcere il naso ai puristi delle edizioni filologiche, ma nel complesso risulta godibile per chi non è «dentro a le segrete cose». Carminati dimostra di conoscere e possedere bene la partitura verdiana, che riesce fluida e ben eseguita all'Orchestra della Casa, dedicando attenzione a non coprire le voci ma anzi secondandole e quasi sempre favorendole. Ma se nel complesso si è trattato di un'esecuzione di buon livello, in molti punti si è avuta l'impressione di un lavoro sì accurato, ma ordinario, non dozzinale ma di routine, dove lo scavo della partitura e le dovute sottolineature strumentali avrebbero potuto avere più enfasi: dissotterrato appena un monile, non si è provveduto a mondarlo e lucidarlo. Peccato, soprattutto in un'opera come questa dove l'orchestra si fa carico di estrinsecare, più che in altri casi, il non detto dei personaggi. L'articolazione delle frasi non esprime al meglio il potenziale della musica, basti pensare all'incipit del Preludio: l'impasto timbrico dei fiati con cui attacca il primo inciso è quello che Muti chiamava «una cornamusa, ma una cornamusa infernale»: sibillina, nasale, se vogliamo anche sgraziata, così come “sporca” Verdi voleva la voce di Lady Macbeth. Di tutto questo, ne rimane una traccia, non altro.

Compensano bene le voci, con riferimento alla recita di sabato 4 febbraio 2023. Macbeth è Leon Kim, baritono appartenente alla scuola relativamente recente di cantanti coreani che sempre più si dimostrano scoperte promettenti, quando non già affermate. Tolto forse all'inizio, in cui si dimostra altalenante e affaticato nel prendere le note più impegnative, regge il confronto con altri baritoni più blasonati, dimostrando di avere buona potenza, acuti sicuri, sfumature e fraseggio. Notevole anche la sillabazione, le doppie ben scandite, tutte difficoltà da tenere in conto per i non madrelingua. Il suo Pietà, rispetto, amore (che nella prima edizione a stampa era «onore»: anche vicino alla morte, a Macbeth importa più essere onorato che amato: le finezze…) resta nella memoria come esempio di ottima esecuzione con una cadenza davvero ben fatta. Si passa poi al Banco di Cristian Saitta, senza dubbio il migliore del cast: voce profonda senza essere infagottata, timbro nobile, ambrato, bel portamento delle frasi, forse un po' statico sulla scena (non che in generale i personaggi si muovano granché, ad ogni modo): ci rammarica che non canti di più! A lui è dedicata una delle scene più suggestive: la sua apparizione allo specchio, con vesti e volto macchiati di sangue e circondato dalle streghe, durante il banchetto. Validissima anche Gabrielle Mouhlen, allieva di Montserrat Caballé (giù il cappello…): senza soffermarsi sulla sua abilità di attrice, grazie alla quale porta in scena, aiutata sia dal trucco di cui s'è già detto, sia dalla lunga parrucca rossa, sia dal fisico da silfide, una Lady davvero graffiante, va sottolineata la sua ragguardevolissima tenuta vocale, corde d'acciaio in grado di affrontare senza tema i gravi come gli acuti, profondandosi negli uni senza perdere smalto, come inerpicandosi negli altri non assottigliando il volume, entrambi gravitando attorno a un centro saldo e vibrante; la mancanza di squillo non è un problema, perché sopperita da altre qualità difficilmente rintracciabili; d'altra parte, è facile intuire quale sia il suo repertorio, confermato dalla scheda biografica: ruoli altamente drammatici (Abigaille, Turandot… sarebbe interessante ascoltare una sua Odabella) e, ça va sans dire, wagneriani. Bene anche per Riccardo Rados, un MacDuff di tutto rispetto: ben cantata Ah, la paterna mano e ben calato lui nel personaggio.

Il cast è completato da Cinzia Chiarini (Dama di Lady Macbeth), Gianluca Sorrentino (Malcom), Francesco Musinu (Medico), Damiano Locatelli (Domestico di Macbeth/Apparizione), Giuliano Pelizon (Sicario/Apparizione), Francesco Paccorini (Araldo), Isabella Bisacchi, Maria Vittoria Capaldo, Sofia Cella e Crisanthi Narain (Apparizioni), con la partecipazione del Coro I Piccoli Cantori della Città di Trieste, diretto da Cristina Semeraro.

Nota di merito, infine, per il Coro della Casa, istruito da Paolo Longo, che offre una prestazione impeccabile: cosa rara, nel Macbeth è possibile apprezzare la compagine maschile e quella femminile sia separate, sia unite: la prima, poco prima di uccidere Banco (coro dei Sicari), la seconda nei cori delle streghe (a guisa di gatto che porta in dono un topo, esse portano in scena in questo allestimento, ad apertura di sipario, corpi di uomini uccisi, ovvero comparse, mentre al terzo atto si muovono in circolo come ne La danza di Matisse, mentre una figurante si produce in acrobatiche evoluzioni, sospesa su tessuti); unite in Schiudi, inferno, al termine del banchetto e nel già ricordato Patria oppressa, dove nella melodia di «Suona a morto ognor la squilla» è già possibile rinvenire in nuce quella del Lacrymosa del futuro Requiem: tutti interventi nei quali il Coro si disimpegna con distinzione.

Applausi più che convinti a fine spettacolo, equamente ripartiti fra tutti, da parte di un teatro, se non tutto esaurito, certamente vicino ad esserlo.

Christian Speranza

1/3/2023