Per i suoi 200 anni il Barbiere di Siviglia perde la testa
Il regista Davide Livermore confeziona uno spettacolo sovraccarico e colmo di macabro umorismo
Straordinario frutto della esplosiva ispirazione rossiniana, Il barbiere di Siviglia vede la luce in un tempo brevissimo, non inusuale per i ritmi produttivi dell'epoca. Quello che sorprende è il fatto che, ad una gestazione tanto rapida, corrisponda uno dei massimi capolavori del teatro musicale d'ogni tempo. Il fiasco della prima esecuzione è dovuto a circostanze contingenti: una compagnia rimediata, un allestimento frettoloso, l'ostilità dei seguaci di Paisiello, autore di un fortunato lavoro sul medesimo soggetto. Proprio per questo il tonfo si rivela effimero, e non poteva essere altrimenti. Duecento anni sono trascorsi da allora, un anniversario che il Teatro dell'Opera di Roma ha voluto ricordare con un nuovo allestimento, affidato alle invenzioni registiche di Davide Livermore. Un ratto percorre la scena durante la sinfonia, a simboleggiare il sovvertimento dell'ordine costituito. Proiezioni ci mostrano il fastidioso e sgradevole esserino lanciato in una corsa frenetica, perso nel labirinto di un noto video game, scomoda materializzazione dei nostri incubi peggiori. Si apre così uno spettacolo sovraccarico e umbratile, che mortifica i caratteri solari della partitura rossiniana, al quale non basta l'uso della tecnologia per essere veramente moderno. L'ambientazione vorrebbe forse ricordare le ardite fantasie di Tim Burton ma, in maniera prosaica, si avvicina più al grottesco orrorifico e televisivo della famiglia Addams. Forse Livermore aspira trasformare Figaro in una sorta di Sweeney Todd, il diabolico barbiere partorito dalla mente dello stesso Burton, ma l'operazione si ferma a metà. La fatale fascinazione per il lato oscuro non si innesta in maniera credibile nelle trame rossiniane. Allo stesso modo gli onnipresenti rasoi, che nel film divengono quasi proiezioni della fisicità del protagonista e del suo desiderio di vendetta, qui hanno il compito di spiccare dal collo le teste dei tiranni, ma il gioco alla lunga si rivela vacuo e privo di attinenza con la reale sostanza dei personaggi. Alla stessa maniera non ha senso trasformare Rosina in una sorta di sposa cadavere degna dei racconti di Allan Poe, tanto più che nel corso della vicenda la vedremo abbigliata come una disinibita ragazza degli anni venti, e come una casalinga degli anni sessanta. Sin dall'inizio il regista segna i caratteri peculiari della sua lettura. La venalità dei musici dopo la serenata, sordi ai languori amorosi di Almaviva e attenti esclusivamente al soldo, diviene aperta ribellione nei confronti dell'aristocrazia. Livermore estrinseca, in maniera fin troppo esplicita, i contrasti di classe presenti nel testo di Beaumarchais, trasformando la scena in un ghigliottinamento di piazza. Ecco il senso dei ritratti dittatoriali ai quali viene tagliata la testa dal collo, visibili sin dalla sinfonia. È la storia che si ripete, l'eterno ciclo di tirannidi e rivoluzioni che si alternano in una ridda senza fine. Luigi XVI, Stalin, Franco, Mussolini, Hitler, Pinochet e Saddam Hussein costituiscono una galleria rappresentativa della malvagità umana. Dagli ovali che ospitano i loro ritratti spilla sangue, come a sottolineare l'insensato scorrere delle vicende terrene. Da qui in avanti lo spettacolo diviene una sorta di danza macabra, nella quale si aggirano figure decapitate che contribuiscono a complicare l'interpretazione di un allestimento a dir poco confuso. Il regista aspira ripercorrere le epoche storiche, ma la carrellata è inevitabilmente sommaria e inutile. Livermore sembra tormentato da un horror vacui che lo spinge a infarcire l'azione di trovate, alcune divertenti, molte altre inutili e slegate dal testo e dalla musica. Il mimo vestito da orso impagliato che sobbalza a ogni starnuto di Berta o che segue l'azione ballando, quasi a simboleggiare l'irruzione della vita in un contesto altrimenti sclerotizzato, può strappare un sorriso, ma alla lunga stanca e infastidisce. Interessante invece l'idea di mostrare la sala riflessa sul palcoscenico e di illuminare con fasci di luce gli spettatori quando Figaro spiega al Conte l'ubicazione della sua bottega. Il barbiere in realtà sta glorificando il proprio estro, e con esso le possibilità che si aprono di fronte all'essere umano dotato di ingegno, a prescindere dalla propria classe sociale. Appare invece inutilmente didascalico il finale secondo. Siamo ormai negli anni ottanta. Il Conte e Rosina rappresentano una coppia annoiata, oberata da mutui e debiti contratti per comperare oggetti inutili. Livermore ci vuole dire che la tirannide del passato è stata sostituita da una schiavitù più sottile, quella delle cose e del consumismo a tutti i costi. Eppure anche questa notazione appare superflua al dettato rossiniano.
Sotto tono l'esecuzione musicale. Renzetti dirige con solido mestiere ma manca di verve. Riguardo gli interpreti Teresa Iervolino, chiamata a sostituire l'indisposta Chiara Amarù, è una Rosina dalla voce agile e gradevole. Florian Sempey canta con sufficiente sicurezza la cavatina di Figaro, anche se non possiede quella naturale facilità nell'acuto che il ruolo richiederebbe. Nel complesso riesce a rendere lo sfrenato vitalismo del personaggio con convincente scioltezza ed efficaci doti attoriali. Sostanzialmente corretto l'Almaviva di Edgardo Rocha. Nella serenata Ecco, ridente in cielo non mostra grandi doti di agilità. In seguito cresce, uscendo indenne dalla difficile aria Cessa di più resistere. Buono il Don Basilio di Ildebrando D'Arcangelo, anche se un poco al di sotto delle aspettative. Il regista lo costringe in una gag perenne, quella del braccio artificiale, peraltro rubata al film Frankenstein Junior di Mel Brooks. Simone Del Savio ce la mette tutta per rendere con adeguata espressività il personaggio di Bartolo, ma alla fine il risultato è poco più che modesto. Apprezzabile infine la Berta di Eleonora De La Peña.
Il pubblico mostra perplessità riguardo la regia, ma applaude in maniera abbastanza convinta gli interpreti. Certo, il Barbiere del bicentenario avrebbe meritato spettacolo di maggior spessore.
Riccardo Cenci
16/2/2016
Le foto del servizio sono di Yasuko Kageyama.
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