RECENSIONI
-

_ HOMEPAGE_ | _CHI_SIAMO_ | _LIRICA_ | _PROSA_ | _RECENSIONI_| CONCERTI | BALLETTI_|_LINKS_| CONTATTI

direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

The Bassarids di Henze per la prima volta a Roma:

il mito quale specchio della modernità

La sensibilità che dal tardo Ottocento sfocia nel nuovo secolo si nutre sovente del contatto con il mito quale punto di riferimento imprescindibile. Pensiamo ad esempio, in ambito letterario, a certe riscritture di Alberto Savinio, nelle quali la cultura classica viene filtrata attraverso un immaginario popolato da fantasie di ascendenza germanica. In ambito musicale impossibile non pensare a Richard Strauss, la cui intera opera vive nell'alternanza fra mito e commedia, a volte mescolate in una singolare alchimia come avviene nell'Ariadne auf Naxos. Nel confezionare The Bassarids il giovane Henze ha certo ben presente il modello straussiano, la lucida compattezza dei suoi formidabili atti unici. Eppure la sua visione sfugge qualsiasi nostalgia passatista per esprimersi in maniera del tutto autonoma, peculiare nella totale fiducia rivolta alle possibilità espressive del teatro musicale e nella sua autonomia dal pensiero avanguardistico corrente negli anni sessanta del Novecento.

Finalmente una scelta coraggiosa da parte del Teatro dell'Opera di Roma, un omaggio dovuto ad un compositore che scelse di vivere nel nostro Paese, lasciando un segno indelebile nel panorama artistico della penisola e non solo. L'opera, nata da una commissione del Festival di Salisburgo dove andò in scena nel 1966, è un rifacimento delle Baccanti di Euripide, caposaldo perturbante ed enigmatico del teatro greco. La scintilla generatrice del progetto deriva da un'idea del grande poeta Wystan Auden il quale, affiancato da Chester Kallman, confeziona un libretto di grande densità e spessore intellettuale. Alla base della vicenda vi è il contrasto insanabile fra l'ascetismo di Penteo, custode dell'ordine sociale e civile, e l'energia vitalistica irrefrenabile del Dio Dioniso, simbolo del dissidio interno all'animo umano. Nell'allestire questo brano fondamentale del teatro novecentesco, il regista Mario Martone evita il pericolo dell'attualizzazione a tutti i costi. Il mito, in quanto eternamente presente, non necessita di orpelli di alcun genere. Certo i soldati tebani si mostrano armati di mitra e non di lance, ma è un dettaglio che non mette in discussione il carattere atemporale della vicenda. Il grande specchio bronzeo che riflette l'azione in maniera indistinta e confusa sembra restituirci un'immagine musicale distorta e decadente. La tessitura orchestrale adombra slanci romantici, salvo poi ripiegare su se stessa. L'effimero trionfalismo sonoro reca in sé i germi del proprio disfacimento. Per questo, più che l'immagine di Strauss, sembra cogliere quella di Mahler, il suo sinfonismo instabile e continuamente minato da irruzioni esterne (e non è un caso che la struttura formale dell'opera ricalchi proprio i quattro movimenti di una sinfonia). La solidità costruttiva è un argine, un artifizio che il compositore adotta per eludere le forze distruttrici. In realtà tutto è soggetto ad una metamorfosi incessante. Dalle pieghe della trama strumentale traspare un amore estremo per la materia trattata, che nelle opere tarde assumerà un carattere quasi manierista.

Ma torniamo all'allestimento. La scena unica risulta perfettamente funzionale al dettato musicale e narrativo. Ne risulta un mondo crudo, dalla sensualità raggelata e distante. Le pulsioni orgiastiche emergono dal sottosuolo, a indicare gli abissi inesplorati della coscienza. Nel complesso buona l'esecuzione musicale. Il direttore Stefan Soltesz conduce con solido mestiere la complessa partitura ma difetta un poco di fantasia. Russell Braun, pur non disponendo di grandi mezzi vocali, rende con efficacia i laceranti tormenti di Pentheus. Lavislav Elgr è un Dioniso crudele e distaccato, dalla vocalità sicura a parte alcune opacità in zona acuta. Buono il Tiresia di Erin Caves, anche lui non esente da qualche fissità nel registro alto. Apprezzabile il Cadmus di Mark S. Doss. Brave infine Veronica Simeoni (Agave) e Sara Fulgoni (Beroe). Ottima la prova del coro. Sala piena e buon successo anche in occasione dell'ultima recita, segno che il teatro musicale del Novecento può far breccia persino nel pubblico più conservatore.

Riccardo Cenci

16/12/2015

La foto del servizio è di Yasuko Kageyama.