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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


Quattro Gatti per Beethoven – parte prima

L'integrale delle Sinfonie di Beethoven all'auditorium Agnelli di Torino

 

Il progetto che ha preso avvio all'auditorium Giovanni Agnelli di Torino martedì 27 gennaio 2015, e che occuperà quattro serate, due nel 2015 e due nel 2016, è sicuramente una leccornia per curiosi, appassionati e intenditori: l'esecuzione di tutte e nove le Sinfonie di Beethoven sotto la direzione di Daniele Gatti alla testa della Mahler Chamber Orchestra (MCO).

Nella prima delle quattro serate, benedetta dal duecentocinquantanovesimo compleanno di Mozart, sono state eseguite la Prima, la Seconda e la Quinta Sinfonia.

La Prima Sinfonia in do maggiore Op. 21 nacque tra il 1799 e il 1800. Beethoven aveva trent'anni: Haydn aveva iniziato a comporre sinfonie a venticinque, Mozart appena a otto. Ma, sebbene Beethoven si avvicini tardi a quello che in ambiente tedesco era considerato il genere più importante di tutti, la sua Prima non continua passivamente la tradizione, ma raccoglie l'eredità del Classicismo settecentesco e lo proietta verso il futuro. Certo, lo fa con prudenza: resta ancora entro i limiti della via tracciata dai suoi predecessori (per durata, organico e, potremmo dire, mood espressivo), ma alcune innovazioni sono innegabili: l'introduzione lenta al primo movimento, per esempio, che vira da do maggiore a fa maggiore in una battuta, scardinando le regole che vorrebbero questa sezione fatta apposta per delimitare i confini armonici del brano; oppure l'introduzione al quarto movimento (quando mai s'era vista prima?), che, quasi prendendosi gioco dell'ascoltatore, sembra riluttante a far partire il tema principale.

La MCO, costituendosi come orchestra da camera, è adatta per questo brano, ancora intessuto di trame settecentesche: i contrabbassi sono tre, indice di complesso strumentale medio-piccolo vicino a ciò di cui probabilmente poteva disporre Beethoven. Gatti, che dirige senza partitura, offre una lettura misurata, senza eccessi e rispettando i tempi convenzionali. Serpeggia lungo tutta l'esecuzione, però, una certa freddezza, che, seppur voluta, sicuramente per far risaltare l'elemento classicheggiante, non ci sentiamo di condividere. A fronte, infatti, di una direzione ben sostenuta (nel secondo movimento, giustamente l'Andante è con moto), attenta alla calibrazione dei piani sonori (nel Minuetto, ad esempio, è stata notevole l'attenzione ai colori, ai piano e ai forte), vi è un trattamento meccanico della materia sonora. Sono scelte, senza dubbio: e in questo caso la scelta è stata quella di far emergere la compostezza e l'eleganza del Settecento.

Più trascinante invece l'esecuzione della Seconda Sinfonia in re maggiore Op. 36, di poco posteriore alla Prima , scritta tra il 1800 e il 1802, durante la profonda crisi data dall'incipiente sordità che culminò nel toccante “testamento di Heiligenstadt”, una lunga lettera ai suoi fratelli che Beethoven non spedì mai e che vale oggi per farci addentrare nell'anima e nel genio di questo eroe della musica. Di tutti i contrasti della sua vita interiore non resta traccia, però, nella tersa luminosità dell'Op. 36. Dalla Prima alla Seconda si passa da una composizione più embrionale ad una più matura, e il confronto immediato che è stato possibile istituire in questo concerto evidenzia l'intenzione di Gatti di guidare il pubblico lungo l'evoluzione del linguaggio beethoveniano anche attraverso un adattamento dello stile direttoriale. Nella Seconda Sinfonia l'organico, rispetto alla Prima, resta immutato: ma il suono è diventato più corposo, e si è avuta l'impressione che la partitura vivesse di più, che respirasse della sua vera grandiosità. Ogni movimento si è distinto per qualcosa: il primo, per un'attenta e puntuale sottolineatura degli sforzati con vigore molto “beethoveniano” (non si giustifica però l'accelerazione sulle battute conclusive, non indicata in partitura); il secondo per un'insolita interpretazione dell'indicazione Larghetto, che è sembrata più vicina ad un Andante – la velocità maggiore rispetto al consueto (cosa che non ci si sarebbe aspettati, attestandosi gli altri tempi su velocità tradizionali) ha però permesso al brano di non perdere mai di tensione e di tenere viva l'attenzione, sacrificando solo in parte la dolcezza dei passaggi più melodici –; lo Scherzo, anch'esso, per un'insolita velocità, più vicina ad un Presto che all'Allegro richiesto da Beethoven, particolare che si rileva però solo nella prima parte del movimento; il quarto, infine, forse quello dalla lettura più tradizionale, per la verve spigliata e una conclusione che pare animarsi per condurre ad una chiusa briosa e ottimistica.

Ottimismo sicuramente esteriore, quello della Seconda, considerando, come si diceva, l'intenso e travagliato periodo dell'autore durante la sua stesura; ma proprio questo deve indurre, secondo me, ad una meta-lettura più profonda: la sovrana maestria che pervade ogni battuta della Seconda, venata anche di humour nel terzo e quarto movimento, è indice dell'impegno assoluto che Beethoven prodigava nella composizione: lì trovava la sua ragione di vita, e solo questa, come afferma lui stesso nel “testamento”, lo fermava di fronte all'idea del suicidio. Più che nel contenuto, quindi, il messaggio dell'Op. 36, al di là dei progressi meramente tecnici della scrittura rispetto all'Op. 21 (lo sviluppo maggiore dei temi nel primo movimento, ad esempio), sta nella forma, nella perfezione formale e insieme nella voglia di oltrepassare i limiti: i limiti della sinfonia a lui contemporanea (la lunga e articolata introduzione lenta al primo movimento, che rivaleggia in lunghezza solo con l'introduzione della Settima e che contiene in nuce già un tema della Nona), ma anche e soprattutto i suoi. Scrivere musica da sordi: se non è oltrepassare un limite questo…

Ciò che lega, per opposizione, la Seconda alla Quinta Sinfonia (in do minore, Op. 67), la cui gestazione durò dal 1804 (i primi abbozzi sono contemporanei alla stesura della Terza) al 1808, è proprio il rovesciamento delle posizioni di base: il messaggio, qui, è affidato al contenuto, e la forma non è che un supporto. Un supporto tutt'altro che secondario, ma affilatissimo, senza sbavature o ripensamenti. La sinfonia corre via infatti molto velocemente, nonostante la tumultuosità di tanti passaggi e la complessità del cammino che fa compiere all'ascoltatore, e sembra dirci: il dramma, la tragedia, poco o tanto, c'è per tutti: ma alla fine c'è il trionfo, il superamento. Dall'oscuro do minore del primo movimento (tonalità beethoveniana per antonomasia, la stessa del Coriolano, della “Patetica” e dell'ultima Sonata per pianoforte, l'Op. 111) si passa al luminoso do maggiore della conclusione. Di fatto questa composizione ha fatto la storia della musica: e non è un caso se oggi, quando si parla di “Quinta Sinfonia”, si intenda per antonomasia quella di Beethoven.

Da un punto di vista filologico si sarebbe preferito che il concerto continuasse con la Terza, per evidenziare l'evoluzione del pensiero sinfonico beethoveniano, che dopo la Seconda si ingigantisce sfociando nell'Eroica (la Quinta brilla invece per asciuttezza: tutto nella Quinta è indispensabile), ma le esigenze di tempistiche e di resistenza degli orchestrali sono comprensibili. Via quindi ad una Quinta che, inaspettatamente, ha destato qualche perplessità. Accanto a cesellature di pregio, come il rilievo dato ad alcuni passaggi di solito in ombra (dei corni nel primo movimento, dei legni nel secondo, per esempio, cosa che ha permesso di rilevare la cura compositiva dell'orchestrazione), o il fine dialogo dei fiati nello sviluppo dell'Allegro con brio (indicazioni come diminuendo… piano… sempre più piano… pianissimo sono sfumature da seguire alla lettera), vanno segnalate l'assenza della corona puntata sul secondo “ta-ta-ta-taaa” (il suono non è stato minimamente prolungato: e se un eccesso di questo prolungamento può risultare troppo teatrale, la sua completa soppressione annulla dal lato opposto le possibilità di grandezza drammatica del tema) e la sporadica asprezza delle trombe. Il secondo e il terzo movimento sono scivolati via destando forse più interesse del primo (impeccabile l'effetto di oscurità, di mistero dato nel terzo, in particolare). Ma a turbare più di tutto è stata l'eccessiva velocità dell'ultimo movimento. Vorrei soffermarmi su questo: se il terzo movimento è segnato Allegro e il quarto Allegro, si deduce che Beethoven volesse i due movimenti eseguiti alla stessa velocità (chiaramente con la differenza del solfeggio da 3/4 a 4/4). Perché quindi Gatti decide di prendere un tempo per l'Allegro del terzo movimento e accelerarlo per quello del quarto? L'approdo al quarto movimento dev'essere un'uscita dalle tenebre, una vittoria, un'esplosione di luce. Eseguito alla velocità voluta da Gatti, il tema del quarto movimento, sulle note della triade di do maggiore, ha assunto l'andamento di una marcetta compiaciuta, che è quanto di più distante dalla pompa e dalla festa che dovrebbe suscitare! Questo significa snaturare l'essenza del movimento, il suo significato.

Ci ha pensato la musica, ci ha pensato Beethoven a correggere il tiro, con note che stanno bene (quasi) in qualsiasi modo le si esegua. Questione agogica a parte, le emozioni sono state tante, e, nonostante la presenza di scelte poco condivisibili, la direzione di Gatti ha riacceso l'interesse per questi classici la cui ennesima rilettura non può fare che bene: e i fedelissimi, che saranno ricompensati a maggio con la Terza e la Quarta, hanno in cuor loro lasciato l'auditorium Agnelli con un: «Alla prossima, Daniele; alla prossima, Ludwig!».

Christian Speranza

9/2/2015

Le foto del servizio sono di Pasquale Juzzolino.