Al di là del tenore di grazia
Opera – al pari della cugina belliniana La sonnambula – tra le più sforbiciate dalla prassi esecutiva, riproposta nella sua fisionomia integrale L'elisir d'amore smarrisce quella scorrevole snellezza che l'ha inserita nel novero minimalista dei gioiellini, per riappropriarsi d'una plasticità costruttiva propria dei gioielli tout court: senza vezzeggiativi che sottendono fragrante squisitezza, ma pure sotterranea deminutio. Ne consegue, tra le altre cose, un più alto profilo dei protagonisti, che diviene limitativo incasellare nelle griglie del tenore “di mezzo carattere”, della soubrette, del “buffo parlante”. Sotto quest'aspetto, la presenza apparentemente sovradimensionata (in termini stilistici, prima che vocali) di John Osborn come Nemorino è stata una scelta assai felice dell'Opera di Roma, nel momento in cui si è deciso di portare in scena un Elisir con tutte le note scritte da Donizetti. Come ieri Alfredo Kraus, oggi anche Osborn si rammarica che i teatri gli chiedono raramente di cantare Nemorino. A ragione o a torto, la tradizione è sempre difficile da scardinare: il mito del puro tenore di grazia, in quest'opera, è duro a morire e il paradigma resta quello di Tito Schipa, di Tagliavini, di qualche loro più fragile epigono, sebbene la storia interpretativa ci abbia insegnato come Caruso, Di Stefano e Pavarotti abbiano dato vita a incarnazioni altrettanto indelebili. Eppure, analogamente a quanto accadeva appunto con Kraus, ascoltando l'Adina, credimi di Osborn il personaggio sembra trasumanare: come se quel contadinello abbandonasse all'improvviso la dimensione comico-sentimentale e diventasse voce del Tenore Donizettiano nella sua quintessenza, Nemorino più Edgardo più Fernando. Che è poi un modo di restituire allo spettatore quella capacità – che avrà solo Donizetti, e rappresenta la cifra autentica dell'Elisir – di travasare il romanticismo anche nell'opera buffa.
Il magistrale pilotaggio dell'emissione (un “suono misto” da manuale) e una stupefacente varietà di gradazione dinamiche (sin dalla cavatina: il “da capo” di Quanto è bella, quanto è cara non clona la prima esposizione, ma lascia percepire un primo mutamento interiore) puntellano dunque l'intero arco del Nemorino di Osborn. Anzi, sono il miglior viatico per l'evoluzione di un personaggio che, al termine della storia, non sarà più quello che abbiamo conosciuto all'inizio: perfino il bis della Furtiva lagrima non è quel dono generoso, ma sulla scia d'una tempesta adrenalinica dell'artista e del pubblico, che di solito sono appunto i bis, bensì un modo ulteriore di ridefinire la pagina appena interpretata. Per fortuna un Nemorino siffatto trova giusta dialettica con l'Adina che ha di fronte, giacché pure Aleksandra Kurzak ha tecnica salda e personalità musicale da vendere, così come anche lei rischierebbe, in teoria, di apparire sovradimensionata (questo Elisir rappresenta un ritorno alle origini, da qualche tempo è passata a un repertorio più spinto). Mentre è proprio la sua voce agile ma scura, da soprano leggero ormai trasformatosi in soprano “assoluto”, a imprimere un peso insospettato alla «ricca e capricciosa fittaiuola» donizettiana: un'interfaccia ideale per quel belcanto autenticamente romantico e privo di tentazioni estetizzanti veicolato da Osborn.
Pure dal podio arriva una fertile intesa, perché Francesco Lanzillotta assicura la flessibilità ritmica necessaria a due protagonisti così personali. A parte questo, scegliendo la versione integrale, punta sul senso della struttura più che sull'irresistibilità comica; emerge nelle zone nascoste della partitura (il quartetto di solito tagliato, certe sotterranee similarità tra la chiusa della Furtiva lagrima e quella del Prendi, per me sei libero di Adina), circoscrivendosi a un corretto accompagnamento nei momenti canonici; insomma è una bacchetta all'insegna della discrezione, di quelle che spiccano poco ma risolvono parecchio. Meno in sintonia col resto – quasi un'isola a sé stante – la regia di Ruggero Cappuccio, già vista una dozzina d'anni fa e oggi un po' invecchiata, o forse ripresa senza un sufficiente numero di prove. Se tenore e direttore lasciano ai margini la componente comica, il regista punta a una comicità tutta di testa, all'insegna di un'artificialità teatrale – comunque ben servita dalle scene bianco ghiaccio di Nicola Rubertelli – probabilmente più adatta a Rossini; mentre i mimi e giocolieri che ingombrano il palcoscenico hanno una loro valenza psicologica (chi sono Nemorino e Adina se non due creature che, rispettivamente, amano ciò che non hanno e non amano quel che hanno, cercando dunque un vuoto da riempire?), imprimendo però un sentore di ripetitività. Resta tuttavia molto bella la Furtiva lagrima contrappuntata dalla giovane acrobata che, alle spalle di Nemorino, si libra in aria sospesa a un nastro rosso: metafora di un amore sempre in equilibrio precario, ma che non potrà mai schiantarsi al suolo.
Simone Del Savio, per fisionomia timbrica e portata complessiva, è forse più un Belcore travestito da Dulcamara che un Dulcamara autentico. Canta comunque con morbidezza e fraseggia con sapidità mai sopra le righe, laddove il Belcore in carica – Alessio Arduini – aggredisce l'emissione con esiti talvolta scompaginati. Avvantaggiata dal ripristino del quartetto, la spigliata Giulia Mazzola ha modo d'imprimere rilievo al ruolo altrimenti ancillare di Giannetta e, d'altronde, sia Lanzillotta (mettendo a fuoco tanti piccoli dettagli musicali) che Cappuccio (grazie a indovinate controscene) danno l'idea di valorizzare questo periferico e simpatico personaggino.
Paolo Patrizi
18/1/2023
La foto del servizio è di Fabrizio Sansoni.
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