Cajkovskij al tempo dell'arcobaleno
Dimenticare Petipa. E Carlotta Brianza, e Margot Fonteyn. E Rudolf Nureev. Ci aveva già pensato Maurice Béjart a rinnovare La bella addormentata di Pëtr Il'ic Cajkovskij, nell'ormai lontano 1971, a un giro di boa da quel 1968 che, anche nella storia della danza, voleva distruggere per ricostruire su nuove fondamenta: e infatti titolava la sua lettura iconoclasta Ni fleurs ni couronnes, quasi a voler far comprendere, in maniera programmatica, che era finita l'epoca dei colori pastello, delle punte e dei tutù. Un nuovo titolo per un nuovo balletto, dunque: per indicare una strada, che sarebbe stata seguita da chi intendeva distaccarsi dal ballet-féerie auspicato da Ivan Vsevolo ˛skij per imboccare nuovi percorsi, itinerari inediti, alternative possibili. Dismessi i panni che le avevano assegnato dapprima il fasto barocco di Perrault, quindi la più tenebrosa, romantica declinazione germanica dei fratelli Grimm, la principessa Aurora è diventata infatti una giovane donna contro, per John Neumeier (1978), o ancora l'eroina di un fumetto dark, per Roland Petit (1990); è arrivata a ‘pungersi' non già con le spine di una rosa ma con l'ago di una siringa, che le trasmette un boy friend drogato, per Mats Ek (1996); fino a quando Nacho Duato ha tagliato il cordone ombelicale con Pas un pas de Petipa (2011), distinto e profondamente distante dalle coreografie originali.
Tutto questo per invitare gli spettatori, che assisteranno alla produzione in scena al Teatro Massimo Bellini di Catania tra gli sbruffi d'acqua di un autunno ormai incipiente, a lasciare a casa gli occhiali della tradizione: che non troveranno nella nuova rilettura di Matteo Levaggi, in prima al Teatro Massimo di Palermo nel dicembre del 2017 e adesso nuovamente in scena nella preziosa sala del Sada. Subito pare opportuno soffermarsi su una prova d'eccellenza, forse insperata per un balletto: l'Orchestra del Bellini, affidata alle cure direttoriali di Mikhail Agrest, è parsa in stato di grazia nel restituire una delle più complesse, stratificate partiture di Cajkovskij, autentico merletto à la manière di uno stile tardo-barocco, morbidamente soffuso negli interventi concertanti di fiati e ottoni. Al netto di qualche sbavatura, peraltro appena percettibile, è parsa esemplare la ricerca del suono, sempre rotondo, felicemente tornito, perfettamente sostenuto senza mai perdere di vista quell'equilibrio, qui essenziale nella ricerca del peso specifico acustico. La bella addormentata si è così confermata pagina tra le più alte della scrittura musicale fin de siècle, con uno sguardo al passato, a un repertorio francese rievocato con eleganza estrema; e uno a un presente che fa affidamento su un'arte dell'orchestrazione ricercatissima, traboccante di melodie memorabili, restituite con mirabile sintesi espressiva.
Tutto questo a sostenere una lettura, elaborata da Levaggi dopo un anno di residenza al Massimo palermitano, e per questo nata per valorizzare un corpo di ballo certo di solidissima tenuta, ma privo di figure solistiche di spicco, capaci di restituire la proverbiale difficoltà di uno dei balletti più impegnativi – forse il più arduo – dell'intera storia della danza. Il che, naturalmente, ha posto dei problemi di base: rinunciare, ad esempio, alle variazioni del gran pas de deux conclusivo, ovvero trovare una soluzione per una pagina, come l'Adagio della rosa, che da sempre costituisce un autentico banco di prova per tutte le interpreti del ruolo di Aurora. E allora Levaggi riparte da zero, raccontandoci un'altra storia – con un altro linguaggio. Si avvale, per questo, del disegno scenico di Antonino Di Miceli, affidato a pochi elementi di sicuro impatto – un grande cerchio bianco sul piancito, da cui si diparte l'azione coreografica – esaltato dalle luci, coloratissime e cangianti, immaginate da Fabio Sajiz. Modernissimi, i costumi approntati dagli allievi del Master di Costume dell'Accademia di Costume & Moda di Roma, coordinati da Andrea Viotti, contribuiscono a delineare un microcosmo immaginifico, ai limiti del fumetto, al quale peraltro viene fatto spesso riferimento, segnatamente durante il pas de caractère dell'ultimo atto: ecco allora un Gatto con gli stivali (Diego Maria Mulone) realizzato con un morbido boa di piume bianche, o ancora un Cappuccetto rosso (Michaela Colino) assediata da un Lupo mannaro (Giuseppe Rosignano) con tanto di chiodo in pelle nera; per concludere sulla coppia composta da Cenerentola (Giada Scimemi) e il principe Fortuné (Diego Millesimo), novelli Musetta e Alcindoro, trasformati in una principessa con il suo personal shopper in cerca della calzatura più elegante… L'ironia appare dunque come la cifra interpretativa, alla luce della quale Levaggi rilegge l'intera coreografia, sintesi di una lotta tra forze contrapposte, quelle del bene e del male, in scena sin dal prologo: con due aitanti interpreti maschili nei panni delle Fate dei Lillà (Andrea Mocciardini) e Carabosse (Vincenzo Carpino), quasi a tratteggiare un confronto conflittuale, destinato a influenzare la vita di Aurora. Nel castello, peraltro, la vita di corte non è più dominata dai regnanti: due troni vuoti – e fors'anche la culla – alludono all'assenza dei genitori, ‘sostituiti' dalla Fata dei Lillà e da un Paggio (Alessandro Cascioli), che ne surrogano la funzione. In uno sgargiante abito fuxia, Aurora (Romina Leone) appare allora come una ragazzina capricciosa e problematica: da Palermo a Catania ha perduto la parrucca rossa, che ne rendeva palesi i connotati fin quasi stregoneschi, ma ha mantenuto una scrittura coreografica volutamente lontana dalla danza accademica e a tratti perfino sgraziata. Non per questo, tuttavia, la fiaba perde i suoi tratti di racconto di formazione: forse ne acquista di nuovi, se si pensa al leggendario Adagio della rosa, qui poco più di un giro di valzer con sei pretendenti, suggellato – con una clamorosa citazione di American Beauty – dal coup de théâtre di una pioggia di tremila rose bianche. Né punte né tutù, dunque, per Aurora: che addirittura nel pas d'action del bosco, una volta incontrato il principe Désiré (Michele Morelli), viene privata delle scarpette – riferimento evidente a una perdita della verginità, che coincide con la danza – e rimane a piedi nudi, per un incontro che diventa autentico corpo e corpo con l'uomo dei sogni. Non è un caso se, poco dopo, non sarà il principe a risvegliarla, ma la troverà in attesa del suo arrivo, dietro le cortine del palazzo incantato.
Ivi li introduce una Fata dei Lillà che diventa figura di riferimento, foriera di un ritorno a uno stato di natura, nell'atto del bosco, dove si liberano tensioni e pulsioni tutte da scoprire. Alla coppia principesca, infatti, ne fanno da contorno altre due – le due Fate con i rispettivi seguaci, il Paggio e Fosco (Vito Bertone), scaturito dai fotogrammi di Maleficent – che declinano la vicenda in chiave dichiaratamente gender, all'interno di una corte che, nel gran finale, risplende dei mille colori dell'arcobaleno. Benedetti da un gigantesco leccalecca a forma di cuore, graffiante icona del desiderio, i due novelli coniugi, dopo un bacio degno di autentici contorsionisti, partecipano al tripudio generale. E vissero tutti leccati e contenti.
Sarebbe piaciuto, tutto ciò, al povero Cajkovskij? Se si vuol credere alle controverse ragioni del suo suicidio è lecito pensare che questo mondo forse lo avrebbe incuriosito, e magari anche divertito.
Giuseppe Montemagno
11/10/2018
Le foto del servizio sono di Giacomo Orlando.
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