RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Puritani modenesi

Il Modena Belcanto Festival 2024 è un progetto di quattro istituzioni modenesi volto a valorizzare, in una serie di date da maggio a luglio, uno dei vanti culturali italiani. Quale migliore occasione, quindi, di sfoderare I puritani, opera aurata di mitologia, raramente eseguita e antologizzata a titolo da grandi eventi? Un titolo che basta da solo a suscitare la curiosità e l'interesse del melomane come del semplice appassionato, e a scatenare ondate di trasporto emotivo, se ben eseguito, come fu a quella prima del 24 gennaio 1835 al Théâtre Italien di Parigi.

E come è stato al Comunale di Modena, che ingaggia nomi di assoluto rilievo. Il pubblico di un Pavarotti-Freni pressoché al completo tributa una piena riuscita alla recita di domenica 12 maggio 2024 (auguri alle mamme, a Viotti e a Massenet; condoglianze a Smetana…), con isolati buuu! di qualche malmostoso bastian contrario dai gusti inesplicabili.

Si parte con il Sir Giorgio Valton di Luca Tittoto. Alto, imponente, vagamente somigliante a Thomas Hobbes per il lungo crine argenteo (l'epoca è quella…), incarna uno zio protettivo nei confronti di Elvira e un politico persuasivo nel duetto con Riccardo – Il rival salvar tu devi –, dove le sue doti attoriali hanno modo di esemplare la psicologia del personaggio, che sa come convincere chi si trova davanti. Il suo splendido strumento bronzeo, tetragono, forte di un'ampia cassa di risonanza, passando per una ben fatta Sorgea la notte folta, porta la platea a una vera e propria ovazione al termine di Cinta di rose, che orna di cantabilità violoncellistica, flessibile come una melodia di notturno chopiniano.

Sir Riccardo Forth è qui Alessandro Luongo, che stupisce per scurezza di timbro e vibrante, granitica solidità. Fin dalla sua cavatina, Ah per sempre io ti perdei, l'unica pagina che rispetti la “solita forma” in un'opera dalle strutture insolitamente aperte, che tenta di avvicinarsi alla scrittura francese, stabilisce i termini di un'interpretazione partecipata e convincente, perfino ardimentosa nella puntatura finale, tenuta e sicura. Seconda ovazione della serata, al termine del Suoni la tromba, Luongo e Tittoto entusiasmano al punto da doverne bissare la sezione conclusiva. Altri applausi, e altra prestazione che non risente minimamente del doppio impegno.

Lodi conquistate sul campo, quelle per Ruzil Gatin, come quelle del «pro' guerrier» che impersona. Dopo un eccellente Percy nella Bolena piacentina del febbraio scorso, lo ritrovo qui in un ruolo ancor più sfidante, quel Lord Arturo Talbo di mostruosa, disumana difficoltà; ma le impervie vette tenorili che il Catanese gli impone, inizialmente pensate per Rubini (e d'altronde il Fernando del Faliero donizettiano, modellato per lo stesso interprete, non è molto più semplice; strano che, appena due mesi dopo, il Bergamasco abbia ricevuto non più che tiepidi applausi…), Gatin le affronta e le supera con apparente nonchalance e con ammirevole souplesse, in grazia di un timbro raggiante, di stampo rossiniano (non per niente è stato allievo dell'Accademia rossiniana a Pesaro), di una voce sonora e senza ombre e di una tecnica sopraffina, che coniuga con una dizione chiarissima, un'articolazione e un fraseggio attenti e, diciamolo, una presenza scenica da non sottovalutare, con quel volto angelico e quei capelli lunghi da San Sebastiano raffaellesco che, in questa produzione, gli conferiscono davvero quell'aria da eroe sublimato, che si sposa a meraviglia con la melodia belliniana, a sua volta sublimazione delle passioni in sfere di aerea melodia. Ne è specimine il suo A te o cara, sia per quell'infido do diesis acuto alla seconda strofa, risolto senza problemi, sia per il tono generale del suo canto, come se, vedendo la sua Elvira per la prima volta legittimamente, ne fosse addirittura in soggezione, emozionato e intimidito. È qui la difficoltà del canto belliniano: nel fornire quel quid interpretativo non scritto che porta, ossimoricamente, a “recitare” la melodia. Tutto questo traspare dal suo canto in piano, meravigliosamente trattenuto, come nelle delicatezze di «ove t'aggiri tu?» (che curiosamente si ritrova, come profilo melodico, nel giovanile Klavierquartett mahleriano, 1876; batt. 29, per i precisini) e nel filato di «il mio pianto», exempla di eleganze belcantistiche incastonate nella lunga scena a inizio terzo atto.

La disamina termina con l'ottima Elvira di Ruth Iniesta, dalla voce luminosa e penetrante, con appena qualche asprezza quando s'insusa nei sovracuti in forte, pienamente compensati da un trillo preciso e sgranato, da agilità e volatine condotte con grazia e portamento. Particolarmente efficace la scena della pazzia, atteso banco di prova culminato con un Vien, diletto, è in ciel la luna eseguito comme il faut. Iniesta riesce nel non facile compito di delineare una Elvira à la Paisiello, effondendo la melodia come quintessenziata, avulsa da erinnici furori ma rapita in estasi da visioni non sempre positive, eppure rese con apollinea, ellenica compostezza, con quello stile che in Bellini è al tempo stesso sguardo in avanti, al romanticismo suo contemporaneo, e all'indietro, al Rossini serio e ancor più indietro all'opera settecentesca. Quanto abbia influito la sua Elvira pazza per amore sulla Lucia donizettiana, varata in quello stesso 1835 appena tre giorni dopo la sua morte e seguita, caso strano, dalla Maria Stuarda, non è dato sapere. Eppure…

Di livello anche tutto il comprimariato. Sir Bruno Roberton è uno squillante Matteo Macchioni, Nozomi Kato un'Enrichetta di Francia di voce corposa (ma senza velo!), Andrea Pellegrini un appropriato Lord Gualtiero Valton. Bravò anche al Coro Lirico di Modena, guidato, pur a quanto pare in poche prove, da Giovanni Farina assistito da Massimo Malavolta.

Non convince invece la direzione di Alessandro D'Agostini, alla guida della pur valida Filarmonica del Comunale, appena sottotono in due piccoli scivoloni dei corni. L'edizione, a cura di Mario Parenti, si rifà alla versione francese: e fin qui nulla di male, la vulgata va più che bene e non si pretende la più rara napoletana, peraltro meno acrobatica per le voci e più convenzionale nella struttura. Pazienza anche per i tagli, qualcuno in più rispetto ai soliti di prassi, peraltro già attuati alla prima o subito dopo. Il vero punto debole è far spesso annegare il canto nel volume tonitruante di una massa tutto sommato contenuta, neanche sessanta elementi, cosa frequente nel primo atto, meno nel secondo e nel terzo. Una concertazione inefficiente, quindi, che predilige un suono inutilmente compiaciuto a scapito delle voci. In generale, le chiuse d'atto sono occasione per disfogare una potenza repressa francamente fuori luogo, per poi non curare a sufficienza i preziosismi strumentali che, rispetto ad altre partiture belliniane, qui sono più marcati, in ossequio all'uso francese. Coerentemente con ciò, è solo nell'uragano di inizio terzo atto che tale robustezza direttoriale si attaglia al tono della musica, traviato da tuoni registrati e da scroscio di pioggia a vista.

E con ciò si può parlare della regia, un allestimento della Fondazione Teatro Comunale di Modena a cura di Francesco Esposito che firma, assistito da Elena Gaiani, anche i costumi. La scelta di Esposito è netta: aderenza alla trama, fedeltà al dettato librettistico, che, se non brilla per i versi di Carlo Pepoli, è ben costruito nella scansione degli atti, essenzialità e qualche libertà ma non troppe. Certo, ci saremmo evitati le prevedibilissime spade sguainate alla fine del Suoni la tromba, pagina tra l'altro appiccicata alla trama da un Bellini per nulla interessato al contesto storico tanto caro ai Francesi del nascente grand opéra ma obbligato dal Pepoli esule mazziniano e dalle convenzioni, così come le pleonastiche figure velate in rosso che compaiono ogni tanto, o come il tentativo di suicidio di Riccardo che, sulle parole «Senza speme ed amor… in questa vita. / Or che rimane a me…?», si versa della polvere bianca in una coppa, prontamente allontanatagli da Sir Bruno. Ma, sebbene i costumi strizzino l'occhio più ai Fiamminghi che agli inglesi, con abiti scuri, corpetti di armature, elmi a morione e gorgiere bianche che fanno molto Van Dyck, e con Bruno e Riccardo pettinati come Dürer/Cristo, l'epoca può essere quella dell'opera; quella di Cromwello, per dire, cui si rifà il già accennato Giorgio/Hobbes (ma l'abito blu notte e quello vermiglio di Elvira sono sapienti tocchi cromatici nel colpo d'occhio generale). C'è la precisa volontà di rendere tutto comprensibile, fin quasi didattico; ma meglio così, piuttosto che lambiccati progetti che poi han bisogno di etichette, spiegazioni e didascalie. «Il rispetto del testo e della musica in primo luogo […]. Non dico nulla di nuovo, in fondo: mi rifaccio solo all'eterna formula del teatro. […] Nell'impianto scenico abbiamo cercato di creare un ritmo che aiuti la narrazione […]»: dichiarazioni di intenti che dovrebbero scolpirsi «a lettere adamantine», come scriveva Bellini a Pepoli, nelle teste ed i cervelli di tanti scervellati registi…

Le scene, di Rinaldo Rinaldi e Maria Grazia Cervetti, illuminate con mano felice dalle luci di Andrea Ricci, efficaci soprattutto nell'uragano, ritraggono i luoghi dell'opera con pannelli rettangolari mobili, che fanno da spalti per le scene “in esterna”, e decorazioni applicate sopra di esse per gli interni, lo studio di Riccardo, per esempio, con intarsi di legno dove spicca una clessidra, e scaffali di libreria.

Ruotando su loro stessi, tali pannelli mobili esibiscono poi, durante la scena della pazzia, specchi rotti, simbolo di una personalità fratta e ri-fratta, una personalità multipla in quel suo ondeggiare tra il «mesta e lieta…». Più complesso è decifrare perché i pannelli lascino le impalcature a vista e, al terzo atto giù cadano infranti.

Al termine della recita, come dicevo, applausi generosi asseverano la riuscita dello spettacolo; finis coronat opus, anche nella produzione di Bellini. Che altro avrebbe scritto se nell'anno dei Puritani non fosse morto, resta come per Mozart una delle ipotesi più affascinanti della storia della musica.

Christian Speranza

14/5/2024

Le foto del servizio sono di Rolando Paolo Guerzoni.