RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Puritani da ricordare!

Scelta ambiziosa e impegnativa, da parte del Bellini International Context 2023, quella di mettere in scena I Puritani del nostro Cigno nell'edizione critica Ricordi a cura di Fabrizio Della Seta: opera difficile, che richiede un cast vocale di notevole caratura, eseguita dai più grandi interpreti del Novecento, che ancor oggi rimangono nelle orecchie e nel cuore di ogni melomane, termini immediati di un confronto spesso impietoso con le prestazioni dei moderni cantanti che affrontano Bellini con leggerezza, convinti forse che basti cantarne le arie con scolastica correttezza e con qualche sfoggio virtuosistico qua e là. Fatta questa premessa, non si può certo dire che I Puritani offerti dal Bellini di Catania il 23 settembre (con replica il 26 alle 17,30) abbiano deluso il foltissimo pubblico che è affluito nella sala del Sada, aperta gratuitamente agli amatori e anche ai neofiti grazie a una scelta della Regione Sicilia che non può che essere plaudita e che non significa, come qualcuno vorrebbe, deprezzare Bellini, ma anzi valorizzarlo appieno, dare la possibilità di fruirne anche a chi, pur pagando le tasse con le quali è finanziato pure il nostro teatro, non ne ha mai goduto, e spesso per motivi economici, giacché non tutte le famiglie, soprattutto oggi, sono in grado di sostenere i costi per un abbonamento o per un biglietto d'ingresso.

La regia era stata affidata a Chiara Muti, coadiuvata dalle scene di Alessandro Camera, dai costumi di Tommaso Lagattolla e dalle luci di Vincent Longuemare, che ha optato per una mise en scène essenziale, quasi minimalista, senza soverchi fronzoli e soprattutto senza quella immane confusione di persone che si aggirano continuamente per il palcoscenico senza nessuna altra funzione che non sia quello di distrarre dalla musica e soprattutto di sperperare denaro in costumi, comparse e oggetti vari che devono essere spiegati dettagliatamente nelle note di regia affinché lo spettatore ci capisca qualcosa. Qui invece tutto, dalle luci alle grandi cornici dove i personaggi agivano e sostavano a mo' di tableaux vivants, sino ai teloni riproducenti alcuni inquietanti dipinti di Füssli, aveva la precisa finalità di concentrare lo spettatore sulla musica, sulle dinamiche vocali, sul climax del dramma che si svolgeva sulla scena, e che culminava nell'ultimo atto che si apriva su una nuda camera azzurrognola, illuminata da gelide luci, dove campeggiava L'Incubo di Füssli, ai piedi del quale stava un giaciglio scomposto, letto di follia e di sogni orrendi, dove l'infelice Elvira sembrava giacere senza più alcuna speranza di salvezza prima dello scioglimento finale. E filo conduttore di tutta la regia sembra essere quasi un mirare attonito della follia amorosa, sia da parte degli spettatori che degli altri personaggi che del coro, e che unica soluzione per far emergere appieno il delirio tutto romantico della protagonista sulla compostezza rigida dei Puritani sia quella di affidarsi al linguaggio del corpo, quasi oleografico, dello zio e di Riccardo, ma anche di Arturo, riversando proprio su Elvira una gestualità assolutamente realistica, quasi clinica negli atti di grattarsi le braccia e le mani, di tirarsi i capelli, del roteare gli occhi e scostare con ira chiunque le si avvicini, che inizia sulla frase “La dama d'Arturo è a bianco velata…”, creando una totale cesura con il linguaggio corporeo precedente, tutto improntato alla leziosità amorosa di una fanciulla di nobili origini.

I costumi, tradizionali ma di grande effetto, specie quelli femminili, che si stagliavano chiari e lunari sulla cupa gravezza di quelli maschili, marcavano nettamente il contrasto tra la rigidezza puritana e il delirio amoroso. Unica nota stonata, distraente da un'omogeneità di scelte il cui unico fine sembrava quello dell'immedesimazione psicologica dello spettatore, di immersione in un sogno atemporale, è stata la scelta di abbigliare il coro in costumi di varie epoche, dalla guerra di Secessione americana al primo Novecento: la regista parla del coro come dello spettatore di uno spazio onirico, che scruta i personaggi che si muovono all'interno delle cornici, e forse in questo senso qualunque tipo di abbigliamento potrebbe andar bene… Ma il vero problema è che nella fattualità della resa scenica la necessità di questo escamotage tende a non vedersi, creando anzi un effetto di amplificazione attentiva proprio sul coro, distraente rispetto all'obiettivo principale di focus sui protagonisti, con relativo senso di sollievo appena il palcoscenico viene abbandonato da queste masse eterogeneamente acconciate.

Quanto all'aspetto musicale in senso stretto, la direzione di Fabrizio Maria Carminati si è distinta per la precisione nella scelta dei tempi, serrati ma non precipitati, che hanno agevolato le prestazioni dei cantanti, per le sonorità piene ma mai soverchianti, ma soprattutto per l'attento e certosino lavoro di concertazione, già riscontrato in altre produzioni del Teatro Bellini da lui dirette, che ha reso l'orchestra un unicum compatto, perfetto nell'attacco e nel rilascio del suono, molto ben calibrato e coeso anche nel dialogo e nell'intersecarsi tra le varie sezioni. Un plauso particolare va ai corni, che in quest'opera hanno un ruolo notevole, e che hanno dato prova di grande pulizia di suono e di notevole espressività. Il coro, diretto da Luigi Petrozziello, si è distinto per la morbidezza del suono, per l'intonazione sempre precisa e per la misura mostrata anche nei momenti di maggior irruenza, senza mai cedere a protagonismi soverchianti.

Di buon livello i comprimari Andrea Tabili, Lord Gualtiero Valton, Marco Puggioni, Sir Bruno Robertson, e Laura Verrecchia, Enrichetta di Francia, che ha messo in luce un bel timbro di mezzosoprano, dotato di una zona media di interessante brunitura. Il basso Dario Russo, nel ruolo di Sir Giorgio Valton, tenero zio di Elvira sulla scia dei “nobili vecchi” belliniani diametralmente opposta alla cupezza genitoriale verdiana, ha reso il suo personaggio con dolente affettività e intensa commozione, lasciando che dalla voce trasparisse ora una tenerezza irresistibile, come in “Cinta di fiori”, ora l'accorata partecipazione, non scevra di minaccia, de “Il rival salvar tu dèi”, che precede il famoso “Suoni la tromba intrepido” cantato insieme al baritono Christian Federici. Vero basso nobile, Dario Russo si è distinto per la bellezza del suono e per una musicalità che gli ha permesso di dare il meglio di sé anche nei recitativi, cantati sempre con grande attenzione e cura, senza mai trascurarne l'aspetto drammatico, che si esprimeva in una gestualità e in una mimica sempre tese a marcare il vigile e accorato amore paterno che contraddistingueva il suo personaggio. Il baritono Christian Federici, Sir Riccardo Forth, dalla voce morbida e lunga, ha saputo trovare la quadra dell'ambivalenza del suo personaggio, innamorato infelice e inflessibile puritano, trovando accenti di grande espressività nella cavatina “Ah per sempre io ti perdei”, finalmente rispettosa del suadente e nostalgico legato belliniano, e di marziale concitazione nel duetto col basso.

Il tenore Dmitry Korchak, nei panni di Arturo, si è rivelato un cantante di grandissimo livello, sia per l'estensione vocale che gli ha permesso di dominare senza sforzo l'impervia parte scritta per l'inarrivabile Rubini, sia per le ottime capacità tecniche, che gli hanno permesso mezzevoci e pianissimo ormai rari, in special modo quando alleggeriva al massimo la voce, sia legati sempre impeccabili, sia acuti sempre coperti e mai striduli, ma soprattutto quella cura del recitativo belliniano che, non ci stancheremo mai di ripeterlo, farà sempre la differenza fra un grande interprete e un routinario esecutore. Da notare anche l'ottima dizione, che ha permesso al pubblico di non perdere nemmeno una parola, e la gestualità sempre calibrata sul personaggio. Unica nota lievemente dolente di questo ottimo tenore è stata la cavatina di Arturo, “A te, o cara”, cantata in modo forse un po' troppo stentoreo, più adatto a un guerriero sul campo di battaglia che a un futuro sposo che si rivolge alla donna amata: se per tutta l'aria avesse alleggerito come ha fatto nel finale, la sua esecuzione non avrebbe avuto nulla da invidiare alla sinuosa grazia di un Florez o alla soavità di un Osborne.

Quanto a Caterina Sala, è stata la vera rivelazione della serata. Avevamo avuto modo di ascoltarla nel galà inaugurale dell'8 settembre, riscontrando nel giovane soprano una notevole padronanza tecnica, sia sotto il punto di vista dell'emissione vocale, sia per quel che riguardava la sua tavolozza timbrica, ma aveva un po' deluso proprio sotto il profilo del temibile fraseggio belliniano, forse per emozione o per qualche altro problema. La sua Elvira del 23 settembre è stata invece spettacolare sotto ogni punto di vista, sia drammaturgico che vocale, evidenziando capacità sceniche che certo in concerto non potevano assolutamente emergere: ha stupito non solo per la facilità con cui ha cantato l'impervia polacca “Sono vergin vezzosa”, dove nessun abbellimento è stato men che perfetto, sia per l'assoluta aderenza al personaggio, che è riuscito a rendere nel suo fulmineo tramutarsi da fanciulla ingenua e gioiosa a pazza delirante, il tutto unito a un controllo vocale sempre impeccabile, dove ogni lacuna di fraseggio si è risolta in un meraviglioso e coinvolgente continuum sonoro ed espressivo, dando vita a una scena della follia pressoché da manuale, tanto più inaspettata per la giovine età di una cantante che si è rivelata perfettamente e improvvisamente matura per uno dei più difficili ruoli belliniani.

Giuliana Cutore

24/9/2023

Le foto del servizio sono di Giacomo Orlando.