RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

La vera Agnese e la finta Alaide

La Straniera di Bellini al Maggio Fiorentino

Secondo trionfo scaligero e quarto titolo del ventisettenne Bellini, La Straniera (14 febbraio 1829), sul libretto variamente apprezzato di Felice Romani, trae origine dal romanzo L'Étrangère (1825) dell'“ineffabile” visconte D'Arlincourt, che le contagia un ingannevole retroscena storico. Bandita da Filippo II di Francia (Augusto tanto per dire), non fu infatti l'amante tedesca Agnese di Merania (che ebbe l'agio di partorirgli tre figli), bensì la danese Ingeburge o Ingeborg (Isemberga) e all'indomani delle nozze. Quest'ultima dovette cedere il talamo ad Agnese, ma sopravvisse pur infelicemente ad entrambi, anziché precederli nella tomba come nella finzione. Prima infatti morì Agnese e poi il re. Della derelitta sorella del re di Danimarca – più verosimile come malvista straniera – non già di Agnese (Alaide), avrebbe potuto semmai muoversi a compassione e innamorarsene perdutamente il “frenetico” conte brettone Arturo, a tal punto da rifiutare la promessa sposa Isoletta malgrado i buoni uffici del barone Valdeburgo (fratello in incognito di Agnese). Viene in ogni caso assicurata la trama del melodramma tragico, che ispirerà a Bellini «l'opera più radicale, […] più ardentemente romantica» (John Rosselli), che, se è meno rigogliosa sotto il profilo lirico-melodico rispetto ai titoli belliniani più popolari, possiede un appeal motivico e una pregnanza drammaturgica peculiari che non mancarono di impressionare tanto Donizetti che Verdi. In Italia però La Straniera sembra vittima di una sorta di xenofobia: assai rare e non sempre memorabili sono le sue riprese. Oltralpe invece riappare un po' meno di rado. La Scala di Milano che la tenne a battesimo 190 anni fa si guarda bene dal rieseguirla (forse in attesa che si compiano i duecento anni?). L'ultima ripresa milanese, nel 1935, centenario della morte di Bellini, venne diretta da Gino Marinuzzi con Gina Cigna, Francesco Merli, Mario Basiola e Gianna Pederzini (excusez du peu!). Dagli anni Sessanta a oggi La Straniera è stata in ogni caso associata, pur sporadicamente, a prime donne maiuscole: da Renata Scotto a Montserrat Caballè, a Elena Suliotis, Renée Fleming, Carol Neblett, Editha Gruberova e Patrizia Ciofi.

Vittima, oltre che nel pasticcio storico, la sventurata principessa danese detronizzata dall' “Augusto”, viene nominata una tantum prima del calare del sipario. Assai cinico, addirittura inumano, si mostra il Priore degli Spedalieri (in pratica il capo della “benemerita” Inquisizione locale) quando annuncia ad Alaide, riconosciuta come Agnese, “Spenta è Isemberga, e riedere, Regina, al soglio dêi. Mi annuncia il lieto [grassetto mio] evento con questo foglio il re”. E non ha patemi d'animo quel bravo ecclesiastico, che poco prima, ignorando il travestimento di Alaide, stava per decretarne la condanna a morte per stregoneria. Al dénouement di una tragedia tuttavia non può addirsi un lieto evento e infatti Arturo, che così deve rinunciare per sempre ad Alaide-Agnese, si pugnala: “Sovra il mio corpo spento ritorna al soglio!”, mentre la Merania si abbandona alla disperazione della cabaletta finale.

Coraggiosa la scelta del Maggio Fiorentino di quest'anno di riproporre, nella revisione critica di Marco Uvietta, l'ardua Straniera belliniana, delicata come un cristallo nobile, senza puntare su un cast altisonante, che non sempre è garanzia di riuscita. Se la regia poco immaginativa di Mateo Zoni, plumbea quanto le luci di Daniele Ciprì, non ha valorizzato lo spettacolo, senza però arrecare devastazioni, immersa nella scenografia assai “spartana” di Tonino Zera e Renzo Bellanca e vivacizzata in qualche modo dai costumi medievalistici di Stefano Ciammitti, la musica si è imposta tanto più decisa. Ha diretto la vigorosa Orchestra del Teatro del Maggio Fabio Luisi, attento a tradurre con estrema calibratura l'ispirazione belliniana, tra abbandoni e veemenze, ardori disperati e lancinanti separazioni. Magnifico il contributo del Coro della Casa diretto da Lorenzo Fratini negli avvincenti interventi di cui è disseminata la partitura, che incorniciano il dramma dei singoli. Il soprano georgiano Salome Jicia, protagonista di tutto rispetto, si è imposta anche scenicamente, abbracciando agile ed espressiva la tessitura del suo ruolo, mentre il deuteragonista Arturo ha trovato nel tenore argentino Dario Schmunck un interprete robusto e appassionato, benché talvolta un tantino monocorde. Ammirevole Valdeburgo si è rivelato il baritono rumeno Serban Vasile, fervido ed eloquente. Promettente ma alquanto acerba l'Isoletta del mezzosoprano Laura Verrecchia, mentre era fresco, irruente e non acerbo il giovanissimo tenore Dave Monaco (Osburgo). Completavano il cast il basso Adriano Gramigni, che ha nobilmente interpretato i lunghi recitativi del Priore e l'altro basso, il cinese Shuxin Li, quale Montolino, padre di Isoletta.

Fulvio Stefano Lo Presti

31/5/2019

Le foto del servizio sono di Michele Monasta.