Lulu: i labirinti della femminilità
L'opera di Berg in una pregevole edizione romana
“Wedekind è il primo drammaturgo tedesco che abbia nuovamente fatto salire sulla scena il pensiero, di cui tanto si sentiva la mancanza”, scrive Karl Kraus a proposito dei due drammi Lo spirito della terra e Il vaso di Pandora, dai quali Alban Berg ricava il materiale per la sua opera Lulu. E proprio questa profondità intellettiva deve aver convinto il compositore ad avventurarsi in un'impresa tanto ardua quanto pericolosa, perché legata alla più oscura intimità e agli abissi ignoti della coscienza. La vicenda dell'ascesa e della caduta di questa donna fatale ha l'attrattiva del mito, e deve aver acceso in maniera irresistibile la creatività di Berg. Eppure la genesi è tutt'altro che semplice; in particolare la riduzione dei drammi in un libretto operistico costituisce un tormentoso rovello. L'opera è destinata a restare incompiuta e quindi problematica, nonostante il meritorio completamento del terzo atto frutto della maestria di Friedrich Cerha. E proprio nella sua versione integrale Lulu è andata in scena all'Opera di Roma, in un allestimento frutto di una coproduzione fra Amsterdam, il Metropolitan di New York e la English National Opera. Il segno inconfondibile di William Kentridge, deformato da un'ottica espressionista, domina lo spettacolo. Disegni si animano come automi, si fanno e si disfano sulla tavolozza scenica, fornendo l'immagine di una realtà in continuo mutamento, inafferrabile come la protagonista. Lulu è figura estremamente sfuggente, pur nella propria carnale e concreta attrazione sessuale. I nomi diversi che le sono attribuiti tentano di catturare un'essenza indefinibile. La parola compare costantemente, sotto forma di ritagli di giornali e di frasi che ripetono quanto detto dai protagonisti. Una parola inerte, priva di significato nella sua vacua ripetitività. Il linguaggio dunque non riesce a dire la verità riguardo una delle figure più misteriose dell'intera storia dell'opera. Tutto è demandato al labirintico ed eclettico procedere del discorso musicale. Una gestualità decisa domina la messa in scena, come se un redivivo Jackson Pollock esplodesse le sue sciabolate monocrome, sottolineando i nodi drammatici dell'azione. Non a caso il secondo marito di Lulu è proprio un pittore, destinato al suicidio quando intravede gli abissi che si celano nell'animo della demoniaca consorte. All'inizio dell'opera lo vediamo impegnato su un ritratto della donna in costume da Pierrot. Nel dramma di Wedekind il pittore afferma: “non ho mai dipinto nessuno dall'espressione così continuamente mutevole”, parole che ben rendono l'inattingibile mistero della femminilità. La sensualità di Lulu scardina il perbenismo borghese, scatena pulsioni che non possono essere arginate in alcun modo. E' carnefice e vittima al tempo stesso, costantemente circondata da uomini avidi che ne vogliono l'esclusivo possesso, e che per lei muoiono o si perdono definitivamente. Non a caso Kentridge le affianca due figure mute, un cameriere che assume pose strane e una pianista costantemente impegnata in perigliose acrobazie sul suo pianoforte, le quali costituiscono altrettanti doppi dell'universo maschile e femminile. Sovente nascondono le proprie fattezze dietro maschere di cartone, come idoli inconoscibili di una arcana realtà. Perno dell'azione l'interludio del secondo atto. Kentridge confeziona un piccolo film muto, seguendo le intenzioni di Berg, che scimmiotta le atmosfere oblique e esagerate dell'espressionismo tedesco. Grotteschi volti in primo piano mostrano il processo e la prigionia di Lulu. Da qui inizia il suo inarrestabile declino. Come Wozzeck, anche Lulu subisce un processo di progressiva degradazione. Il suo confronto con la società degli uomini, alla lunga, si rivela fatale. Colpevole di aver ucciso il dottor Schön, Lulu fugge solo per precipitare in un abisso ancor più nero, fino a trovare la morte per mano di Jack lo squartatore. Ancora nelle pieghe di uno spettacolo pregevole cogliamo accenni alla pittura e all'arte grafica di Otto Dix e George Grosz, interpreti della deriva morale germanica e della follia che attanaglia l'intera umanità. I personaggi agitano enormi mani, come manichini che vorrebbero avere una presa sulla vita che continuamente gli sfugge. Spettacolo pregevole dunque, realizzato con inappuntabile coerenza e ammirevole maestria tecnica. Se qualcosa manca è una maggiore caratterizzazione di alcune situazioni, come l'attrazione ambigua fra la protagonista e la contessa Geschwitz.
Buona l'esecuzione musicale. Alejo Pérez sorregge l'architettura narrativa con indubbio vigore senza scadere nella gelida impersonalità, illuminando la partitura nei suoi più minuti dettagli. A un cast così nutrito difficilmente si può domandare la perfezione. Nel complesso tutti forniscono il proprio contributo alla riuscita finale. Agneta Eichenholz è una Lulu perfettamente credibile dal punto di vista scenico, magnetica e duttile nel definire il mutevole carattere della protagonista. La affianca la Geschwitz ben cantata di Jennifer Larmore, toccante nelle ultime battute dell'opera, appena screziate da una dolente umanità. E' l'unica figura che sfugge l'egoismo imperante, capace di sacrificarsi per l'amata Lulu. Martin Gantner ricopre sia il ruolo del dottor Schön, il quale avrebbe forse meritato sfumature maggiori, e di Jack lo squartatore, reso con il freddo distacco che gli si addice. Willard White (Schigolch) sopperisce con il mestiere e l'intelligenza interpretativa all'inevitabile usura vocale. Charles Workman rende bene il carattere piuttosto debole di Alwa, ma mostra problemi di intonazione e carenze negli acuti. Piuttosto afono il domatore di Zachary Altman, apprezzabile il resto del cast.
Sala purtroppo non piena. Un peccato considerando che l'opera, indubbiamente uno dei capisaldi del teatro musicale del Novecento, mancava al Costanzi dal lontano 1968. Un'ennesima prova della sostanziale pigrizia del pubblico romano.
Riccardo Cenci
27/5/2017
La foto del servizio è di Yasuko Kageyama-Opera di Roma 2016/2017 .