RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

La rinascita di Alfredo

«Amami, Alfredo». Ma stavolta Verdi non c'entra. Ad essere amato, questa volta, è l'Alfredo il grande di Gaetano Donizetti, amato al punto da essere riesumato dopo esattamente duecento anni (e quattro mesi, per la precisione) dal suo sfortunato debutto al San Carlo di Napoli il 2 luglio 1823. La sua ripresa si progettava già dal 2021, ma per rispettare la scadenza bicentenaria e inserirlo nel progetto “Donizetti 200”, si è aspettato il 2023, anche per dar tempo a Edoardo Cavalli, ricercatore del Centro studi donizettiani della Fondazione Teatro Donizetti di Bergamo, di prepararne l'edizione critica.

Grazie al “Donizetti 200” si dà nuova vita ad opere del Bergamasco che compiono duecento anni esatti, e dal 2017 ad oggi sono stati portati in scena titoli desueti che hanno fatto la felicità dei melomani alla ricerca delle rarità. Alfredo il grande non è da meno. Come per Chiara e Serafina del 2022, si tratta di una di quelle opere che non ha avuto riprese successive durante la vita del compositore, e che venne archiviata, forse anche da Donizetti stesso, se non come un fiasco completo, almeno come un insuccesso sul quale meditare. Ragione di più, perciò, di essere curiosi nei confronti di una musica che taceva in un cassetto da duecento anni.

Ma cerchiamo di capirlo, il non ancora ventiseienne Gaetano, che, fresco di studi e pieno di speranze, cercava di farsi strada nel mare di pescecani dell'industria operistica primoottocentesca. Dopo il flop scaligero della già ricordata Chiara e Serafina, nell'ottobre del 1822, scende a Napoli a scrivere per il San Carlo. Firma con Domenico Barbaja uno di quei tanti contratti-capestro che lo legheranno alla catena della composizione a getto continuo per anni. Il primo impegno è una cantata, Aristea, per l'onomastico del re Ferdinando di Borbone (30 maggio 1823). A seguire, poco più di un mese dopo, è proprio Alfredo il grande, su libretto di Andrea Leone Tottola, che gli aveva già fornito i versi de La zingara l'anno precedente, oltre ad essere stato il librettista di tanti lavori napoletani di Rossini (Mosè in Egitto, Ermione, ecc.), quel Rossini che proprio nel 1822 aveva lasciato il San Carlo fuggendo con la neosposa Isabella Colbran. Tottola tornerà nel 1829 a collaborare con Donizetti per Il castello di Kenilworth; ma intanto, il ricordo del brio e dello stile rossiniani era ancora fresco nel pubblico di Napoli, che non fu facile per lui digerire lo shock di un giovanotto rampante che gioca col rossinismo ma inizia con consapevolezza a distaccarsene. Fu probabilmente questa la causa dell'insuccesso. Perché Gaetano (mozarteggia e) rossineggia, sì, ma con garbo, prendendo le distanze dal gorgheggiare estetizzante del Pesarese, servendosene quel tanto che basta a ingraziosire l'opera e – o almeno ci prova – a fini espressivi. Musicalmente non c'è molto di nuovo nell' Alfredo, opera seria piuttosto routinaria, se pensiamo all'impianto di cavatine, arie, duetti, ensemble e al grande rondò conclusivo per la primadonna. L'involo melodico tipico del Donizetti maturo è ancora acerbo; ma la marcetta militare dell'esercito danese, uguale identica alla canzone del reggimento di Marie di vent'anni dopo (Chacun le sait, chacun le dit) è già lì, riconoscibilissima, come pure Ah, no, non è possibile, il duetto Alfredo-Amalia del secondo atto che ricalca, fa notare Pierangelo Pelucchi, Ah, padre, tu m'odi?, la cabaletta del terzo atto della Maria Padilla. L'inventiva ad ogni modo non manca. Semmai la debolezza è a livello del libretto, tipico libretto da opera seria con lunghi recitativi che non indugia in chissà quali scavi psicologici e caratterizzato da una certa staticità, che dal primo al secondo atto si appiattisce, di fatto concentrando il succo dell'azione (peraltro già molto diluita: altro che la «brevità e fuoco» che Verdi chiedeva a Piave) nel primo, quasi temendo che al pubblico calasse l'attenzione dopo l'intervallo. Ma era l'ingresso ufficiale nel gran mondo del San Carlo, per Gaetano, e un'opera seria che in filigrana rendesse omaggio alla casa regnante era quel che ci voleva per ingraziarsi il sovrano favore.

Sulla scorta, per esempio della Clemenza mozartiana, Alfredo il grande porta in scena una trama in cui il monarca, che è anche, ça va sans dire, un campione di etica e di magnanimità, viene ristabilito sull'altare dopo essere stato per più delle manzoniane due volte nella polvere. Tutti contenti e happy end assicurato. L'inglesismo è d'obbligo. La vicenda prende spunto da un fatto storico, la battaglia di Ethandun (maggio dell'878, sud-est dell'Inghilterra) – ecco qui il primo contatto di Gaetano con la Storia inglese, che gli avrebbe dato, a partire dall' Anna Bolena, più di un'occasione musicale –; il resto è invenzione. Sull'isola di Athelney, Alfredo, sotto mentite spoglie, ha trovato ricovero nella casa del pastore Guglielmo, dopo che l'esercito danese, penetrato nel Somerset, l'ha costretto alla fuga. Sulle sue tracce sono la moglie, la regina Amalia, ed Eduardo, generale dell'esercito, che lo ritrovano. Ma sulle sue tracce è anche Atkins, comandante dei Danesi, che, fingendosi inglese e avendo riconosciuto Alfredo, lo invita a scappare, perché, così gli dice, il nemico ha scovato il suo nascondiglio, in realtà architettando un'imboscata. Guglielmo rivela alla coppia reale un passaggio segreto sotterraneo che mette in aperta campagna. Alfredo e Amalia fuggono, ma ad attenderli ecco Atkins con le sue truppe. Inaspettatamente irrompono Eduardo con l'esercito inglese e Guglielmo con il popolo in armi, e difendono il loro sovrano. Alfredo potrebbe facilmente trucidare Atkins, ma la sua nobiltà lo costringe a dargli appuntamento sul campo di battaglia. Fine primo atto. Il secondo inanella pretesti (compreso il “discorso del re” all'esercito) per allungare il brodo e procrastinare una battaglia annunciata che alla fine viene vinta fuori scena dagli inglesi. Nella disfatta, Atkins intercetta Amalia sola con Enrichetta, una contadina, e le prende in ostaggio; ma di nuovo, l'irrompere di Eduardo e Guglielmo e dell'esercito si rivela provvidenziale. Nemico catturato, esultanza generale e grande aria finale di Amalia.

Nella versione approntata da Edoardo Cavalli, Alfredo il grande viene messo in scena al Teatro Donizetti di Bergamo nell'ambito del Donizetti Opera Festival 2023 domenica 19 e venerdì 24 novembre. E dico nella versione di Cavalli perché, a tutt'oggi, sia il manoscritto depositato presso il Conservatorio di San Pietro a Majella di Napoli, che costituisce la fonte principale, sia quello rinvenuto presso la Bibliothèque National de France di Parigi, di altra mano ma con interventi autografi, sono manchi di alcune parti, a cominciare dalla Sinfonia d'apertura e del coro Viva Alfredo! Il grande! il prode!, che precede l'aria finale di Amalia, delle quali è conservata solo la linea di basso. Per ricostruirle senza dover ricorrere all'espediente di far comporre le parti mancanti à la manière de Donizetti, si è cercato di attenersi ai procedimenti compositivi del Gaetano di quegli anni e agire di conseguenza. Il prezioso saggio di Cavalli, troppo particolareggiato per essere qui riassunto, spiega come è stato possibile.

Alla prima delle due date, di cui si riferisce, l'emozione è palpabile, dato l'evento, col parterre gremito di critici e autorità del campo musicale. La direzione è affidata a Corrado Rovaris, che guida l'Orchestra Donizetti Opera con un foco insolito, un'energia degna dei numerosi passaggi ad andamento militaresco, a cominciare dalla marcia d'apertura. La robustezza del suono è qualcosa di fisico, di materico, talvolta sì, forse di eccessivo, ma a onor del vero ciò accade poco, la concertazione rivelandosi per buona parte della recita equilibrata e a favore dei cantanti, e all'occorrenza in grado di cullare a dovere la linea di canto senza sovrastarla. L'Orchestra, da parte sua, offre un bel suono terso e smagliante; altrettanto dicasi per la nutrita banda di palcoscenico, costituita da elementi del Politecnico delle Arti di Bergamo, le cui parti sono di pugno di Donizetti e non, come si usava all'epoca, affidata alla strumentazione di collaboratori (segno, questo, della cura con cui Gaetano preparò l'opera).

Il cast si dimostra oltremodo valido e molto ben distribuito, una caratteristica che si ritrova come una costante nel caso dell'attenta selezione di voci del Festival. Si parte da Antonino Siragusa per il title role, apprezzabile voce di stampo tipicamente rossiniano che, se mai servissero conferme o biglietti da visita, ha dalla sua squillo, buona potenza, morbidezza di fraseggio, tecnica agguerrita e una certo timbro vagamente scuro che caratterizza bene soprattutto l'Alfredo delle prime scene, mesto e schivo. La cavatina al primo atto, Non m'ingannai, e soprattutto la lunga sequenza del secondo, scene I-IV, gli valgono prolungati applausi a scena aperta. Applausi non meno intensi per Gilda Fiume quale Amalia, già apprezzata Ofelia nel recente Amleto di Franco Faccio andato in scena al Filarmonico di Verona: e questo testimonia quanto sia artista poliedrica, in grado di padroneggiare repertori differenti, forte di una voce sfavillante, ampia e che corre, dotata di espressività e bel colore luminoso, messa qui al servizio di un ruolo brillante, risolto dando fondo a notevole perizia, massime nel rondò finale Che potrei dirti, o caro… Torna a gioir quest'alma, uno dei primi esempi di piroettanti e pirotecnici finali da primadonna donizettiana. Molto ben fatto anche per l'Eduardo di Lodovico Filippo Ravizza, baritono dalla voce scura e ben timbrata, che oltre a dosare opportunamente l'ottimo strumento bronzeo di cui è dotato, si muove sulla scena con più credibilità degli altri, nonostante una regia che tarpa le ali all'espressività gestuale. Sotto questo aspetto di immedesimazione nel ruolo, spicca, rispetto al resto del cast, Adolfo Corrado, che dipinge un Atkins pieno di odio viscerale, sbozzando il carattere in maniera più verosimile in un contesto che ancora non si è svincolato dalla rigida e quasi impersonale vocalità barocca, e gli permette di sfoderare un registro grave di basso possente, dalla cavata importante e dal timbro cavernoso, dove ogni frase suona come un'oscura minaccia. Si segnala poi l'Enrichetta di Valeria Girardello, mezzosoprano brunito uniforme nell'estensione, di duttile gola e spiccato lirismo, che ha modo di emergere nel rondò Quando al pianto ed all'affanno?, e il Guglielmo di Antonio Gares, tenore di stampo più prettamente donizettiano, chiaro, aereo e squillante. Completano il cast il Rivers di Andrés Agudelo e la Margherita di Floriana Cicìo, allieva della Bottega Donizetti.

Menzione speciale per il Coro della Radio Ungherese, istruito da Zoltán Pad, per la prima volta ospite a Bergamo grazie a Riccardo Frizza, non solo direttore musicale del Donizetti Opera Festival, ma anche dell'Orchestra della Radio Ungherese (sarà per questo che nel vicino mercatino di Natale si arrostivano dolci tipici ungheresi?).

La staticità del libretto, cui si accennava, si ribalta purtroppo anche sulla regia di Stefano Simone Pintor, che assieme all'assistente Veronica Bolognani concepisce un Alfredo tra il semiscenico e l'oratoriale. Del primo ha movimenti relativamente limitati su scene, di Gregorio Zurla, al limite dell'inesistente (qualche sporadico sgabello e poco più); del secondo ha il Coro in masse compatte, dispiegato al o centro del palcoscenico, o tutto su un lato, con lo spartito in mano “foderato” delle bandiere britannica e danese per dar senso agli schieramenti, croce di San Giorgio e Dannebrog, o Alfredo intento a cantare Sì, vinceremo al centro del palcoscenico di fronte a un leggio. Ad animare la recita ci pensa il video designer Virginio Levrio, che grazie a opportune proiezioni ambienta la scena in un libro, una pagina come pavimento e una sullo sfondo. È «il grande libro dell'umanità», secondo quanto dichiara Pintor ad Alberto Mattioli nell'intervista; oppure potrebbe essere il Doom book, il primo codice legislativo inglese, steso in parte da Alfredo stesso, o le Cronache anglosassoni, il primo libro di storia inglese compilato da amanuensi su suo ordine. L'interpretazione è varia. E proprio agli amanuensi si rifanno le pagine ingiallite del libro sul palcoscenico, con miniature, rami che fioriscono e scritte simil gotiche. A ciò si alternano, quali parallelismi di storia medievale e contemporanea di discutibile pertinenza, brevi sequenze di violenza, roghi di libri, pestaggi, retate, e inquadrature di Jake Angeli, lo “sciamano” che il 6 gennaio 2021 assaltò il Congresso vestito da vichingo, pelli di animale ed elmo con le corna compresi.

Pelli di animale ed elmi con le corna ricorrono anche nei costumi di Giada Masi per ritrarre Atkins, Rivers e le truppe danesi. Sui costumi si è agito a vari livelli, in una miscellanea di epoche e latitudini che francamente disorientano e obbligano a collocare la vicenda in un tempo altro, fortemente astratto. Guglielmo, da pastore di capre diventa pastore di anime, con la pianeta dorata (ma “pastore” è termine protestante e nel IX secolo Lutero doveva ancora nascere!), e ospita nel suo tugurio i rifugiati, aiutato da una Enrichetta membro della Croce Rossa, con tanto di divisa e pacchi di aiuti umanitari. E se Pintor riferisce che «il nostro spettacolo è quello della croce […] e lo stesso simbolo, che poi dovrebbe essere un simbolo di pace, diventa quello di una grande alterità», sappia che la Croce Rossa, aconfessionale, è passata già da tempo ad adottare come simbolo anche la mezzaluna rossa, a richiamare la bandiera islamica, e il cristallo rosso, svincolato da ogni riferimento religioso. Non parliamo poi di un Alfredo che passa disinvoltamente dalla pelliccia da pastore all'ermellino dell'incoronazione, non disdegnando smoking, fusciacca e papillon. Che cosa leghi poi le mimetiche verde militare e i mitra alle cotte di maglia da crociato e alle spade medievali, resta da capire… come pure resta interrogativa l'illuminotecnica di Fiammetta Baldiserri, che accende in platea le mezze luci, salvo poi sprofondare il Teatro nel buio e ravvivarne il soffitto affrescato: forse un diversivo per dare un guizzo di originalità a una recita che di originalità ne ha molta: solo che è mal congegnata. E se allo scrivente sfugge il senso del respingere le pur dettagliate didascalie di Tottola, che, tolto l'impianto inamidato del libretto, ravviva i versi con vivide descrizioni di scene di natura selvaggia, lasciate che risponda con le stesse parole di Donizetti a Mayr: «sarà ciò che sarà, ma io non sò [sic] far di più».

Christian Speranza

23/11/2023

Le foto del servizio sono di Gianfranco Rota.