SantaCecilia apre con
il Requiem tellurico di Berlioz
Il corrispettivo visivo più attinente alle dimensioni sonore della Grande Messe des Morts di Hector Berlioz, con la quale si è aperta la stagione ceciliana, è certo il ritratto fotografico che del compositore fece Nadar; il corpo elevato a dimensioni monumentali dalle ampie volute del mantello, il viso serio e concentrato, i capelli mossi dagli ardimenti delle romantiche aspirazioni. Ben diverso il ritratto confezionato da Courbet il quale, con scoperta ironia, mostra un viso minuto ed emaciato emergere dalla tenebra, gli occhi infossati, il naso aquilino realisticamente mostrato al di là di qualsiasi trasfigurazione estetica, insieme all'intuizione di una fisicità gracile e minuta. Ha un bel dire Henry Barraud quando parla di un equivoco critico, che individua esclusivamente il gigantismo là dove si rasenta l'intimismo. Il Requiem di Berlioz è indubbiamente opera tellurica e visionaria, che aspira alla compenetrazione di masse orchestrali e corali di inusitata grandezza. Un lavoro concepito per un organico immaginario, che sfugge la tradizionale disposizione dei musicisti. Nella concezione di Berlioz è particolarmente importante il punto di partenza del suono; un'idea che anticipa la modernità (pensiamo a Gruppen di Stockhausen, con l'orchestra divisa appunto in tre sezioni, al suo discorso sulla spazialità e sulla temporalità). I gruppi degli ottoni dislocati in diversi punti della sala non additano solo una spettacolarizzazione dell'evento musicale, ma incarnano una precisa volontà spaziale. I pregi e i difetti della partitura sono tutti qui. Se da un lato non possiamo che ammirare l'estro fantastico e l'assoluta libertà con le quali l'autore approccia l'evento compositivo, la maestria nelle combinazioni timbriche e l'originalità linguistica del discorso musicale, dall'altro stigmatizziamo l'incompiutezza di un tale sogno, la frammentarietà dell'insieme, la debolezza di alcuni momenti dove le idee non sono adeguate alla grandiosità degli intenti. Resta l'ambizione inesausta e mai doma, lo sforzo compiuto per trascendere i limiti dell'umano.
Riguardo l'esecuzione, Pappano appare più impegnato a tenere insieme l'enorme edificio sinfonico, piuttosto che a imprimere una propria riconoscibile impronta interpretativa. Detto ciò, l'esecuzione è comunque di grande impatto. Molto efficace la gestione delle pause e dei silenzi, in particolare all'inizio della partitura. Il direttore si mostra maggiormente a proprio agio nei grandi gesti teatrali, come nel Lacrimosa, dove i ritmi sincopati veicolano una insostenibile tensione. Anche il Sanctus, con i momenti cantabili di etera leggerezza alternati alle fughe in stile severo, trova in Pappano interprete sensibile e attento. Qui il tenore solista Javier Camarena ha modo di far valere le proprie doti di belcantista. Il timbro è limpido, la voce robusta e ben governata in tutti i registri. Bello anche il finale, forse il momento più alto della partitura, pregno di luministico nitore e di intima commozione. Ottima la prova dell'Orchestra, coadiuvata dalla Banda della Polizia di Stato, non esente da qualche sbavatura il coro, per l'occasione rinforzato dai complessi del San Carlo. Il pubblico dimostra di apprezzare, senza però le consuete punte di entusiasmo.
Riccardo Cenci
11/10/2019
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