RECENSIONI
-

_ HOMEPAGE_ | _CHI_SIAMO_ | _LIRICA_ | _PROSA_ | _RECENSIONI_| CONCERTI | BALLETTI_|_LINKS_| CONTATTI

direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Pirandello in salsa Martoglio

“Vedo una vecchia signora, coi capelli ritinti, tutti unti di non si sa quale orribile manteca, e poi tutta goffamente imbellettata e parata d'abiti giovanili. Mi metto a ridere. Avverto che quella vecchia signora è il contrario di ciò che una vecchia rispettabile signora dovrebbe essere. Posso così, a prima giunta e superficialmente, arrestarmi a questa impressione comica. Il comico è appunto un avvertimento del contrario. Ma se ora interviene la riflessione, e mi suggerisce che quella vecchia signora non prova forse nessun piacere a pararsi così come un pappagallo, ma che forse ne soffre e lo fa soltanto perché pietosamente s'inganna che, parata così, nascondendo così le rughe e la canizie, riesca a trattenere forse l'amore del marito molto più giovane di lei, ecco che io non posso più riderne come prima, perché appunto la riflessione, lavorando in me, mi ha fatto andar oltre quel primo avvertimento, o piuttosto, più addentro: da quel primo avvertimento del contrario mi ha fatto passare a questo sentimento del contrario. Ed è tutta qui la differenza tra il comico e l'umoristico.”

Mi si perdonerà questa lunga citazione, tratta da L'umorismo di Luigi Pirandello, ma ho ritenuto che in questo caso fosse davvero assolutamente doveroso lasciar parlare l'autore de L'uomo, la bestia e la virtù, che ha inaugurato il 13 novembre la stagione 2015-2016 del Teatro Stabile di Catania, per la regia di Giuseppe Dipasquale. Sì, perché parlare di “un Pirandello francamente comico”, come recitavano le note di regia del programma di sala, coglie lampantemente la portata di un fraintendimento colossale: quello cioè che l'umorismo di Pirandello, o forse sarebbe meglio chiamarlo il suo sentimento del grottesco, abbia a spartire qualcosa con la comicità grossolana a cui ha mirato la rappresentazione. Quando infatti Pirandello parla di sentimento del contrario, e definisce il comico solo come un avvertimento del contrario, quindi solo una preparazione all'umorismo, intende chiaramente indicare un sentimento amaro, dato e alimentato dallo svelamento dell'ipocrisia sottesa a quasi tutti i comportamenti umani, sentimento che certo non può far ridere come si ride durante I civitoti in pretura, ma al massimo può esprimersi in un ghigno amaro, in un sorriso a fior di labbra, mai nelle grasse risate che hanno pervaso la sala del Verga per quasi tutta la rappresentazione, con entusiasmi che a chi conosce davvero Pirandello sono sembrati quanto mai fuori di luogo.

Ma scendiamo più nei particolari, e cominciamo dalla riduzione del testo, che non si è limitata solo ad alcuni tagli, quali quello del battibecco dei due alunni col professore Paolino nel primo atto, taglio che del resto ha tolto buona parte della profondità scenica e della delineazione dei personaggi principali, ma che ha pesantemente influito su tutta la commedia: chiunque conosca per lettura diretta il testo drammatico pirandelliano, sa che le didascalie sono molto esplicite, particolareggiate e perfettamente finalizzate all'intento generale, e quindi immagina che ogni regista dovrebbe quanto meno cercare di assecondarle, magari evitando di spostare scene (come nel secondo atto), di far crescere troppo i personaggi (Nonò è un ragazzino di undici anni, ma sulla scena era impersonato da un attore che ne aveva almeno una ventina), e di inventarsi monologhi di sana pianta, come quello della signora Perella alla fine del secondo atto, monologo del resto recitato più o meno come se si leggesse l'elenco del telefono, senza pause, con voce monotona e con dizione alquanto carente. Inoltre, se Pirandello vuole che la truccatura ad opera di Paolino della signora Perella avvenga in scena, forse è perché, espressionisticamente, il pubblico deve assistere ad una trasformazione alla fine della quale la Virtù sarà “quasi stralunata”, mostrando “un volto spaventosamente dipinto, come quello d'una baldracca da trivio”.

Insomma, L'uomo, la bestia e la virtù non è una commedia basata su una volgare storia di corna, più o meno come tante commedie degli equivoci che affollano il repertorio brillante: le corna sono solo un punto di partenza per una lenta e impietosa demistificazione del perbenismo borghese, adombrato da Paolino, e della virtù femminile, la signora Perella, tutti e due apparentemente contro la bestia, il capitano Perella, ma in realtà miranti solo ad usare la bestialità della bestia per continuare tranquillamente una comoda esistenza rispettabile, senza altro che l'incomodo della visita di un giorno del capitano di tanto in tanto.

Tutto ciò non veniva fuori, anzi tutto il contrario. Tolte le funzionali scene di Paolo Calafiore, e i discreti costumi di Adele Bargilli, l'intera compagnia era assolutamente fuori ruolo, con una recitazione esagitata, caricata, con frequenti cadute, specialmente Geppy Gleijeses, in una dizione volutamente sporca, ammiccante al napoletano, davvero inadatta all'italiano ricercato di Pirandello. Il Paolino di Gleijeses puntava troppo sulla “vivacità” prescritta dalla didascalia, ma non riusciva affatto a lasciar trapelare l'aggettivo che avrebbe dovuto seguire, quel “nervosa” precisato da Pirandello con “subitanei scatti e cangiamenti di tono e d'umore”: la recitazione era monocorde, affrettata, convulsa più che nervosa, più adatta alla farsa che alla drammaturgia del grande agrigentino.

Recitazione convulsa che sembra aver contagiato buona parte della compagnia, da Vincenzo Leto, un Nonò caricato, vociante e rumoroso oltre ogni dire, a Marianella Bargilli, una legnosa signora Perella, con inadeguate movenze da sciantosa all'inizio del primo atto, querule e stridule lamentazioni nella prima parte del secondo, e movenze da cartone animato giapponese nella scena del pranzo, dove del resto tutti si muovevano come burattini a ritmo di una grancassa di posate, per finire con arie da maliarda nel terzo, quando pone i vasi sul balcone con movenze serpentine ed insinuanti, mentre il povero Pirandello l'aveva immaginata “vergognosa, con gli occhi bassi”.

Più adeguato al suo ruolo Marco Messeri, il capitano Perella, anche se vittima della generale freneticità registica e del taglio inidoneo dato al lavoro. Buone le prove di Francesco Benedetto, nel doppio ruolo del dottore e del farmacista, e di Renata Zamengo, che ha impersonato emtrambe le serve, di Paolino e dei Perella.

Giuliana Cutore

14/11/2015