Uccellini in gabbia
Per Heidegger l'uomo, inteso come esser-ci, è sempre gettato presso il mondo, nel senso che il cadere nel mondo (senza alcuna accezione negativa) significa in parole povere la vita comune di tutti gli uomini, le loro interazioni, quell'essere-assieme dominato dalla chiacchiera, dalla curiosità e dall'equivoco. L'uomo insomma vive sempre in contestualizzazione con altri esseri umani, i quali vengono inautenticamente percepiti primariamente non come simili, ma come enti facenti parte del mondo insieme ad altri enti ontologicamente differenti. Ancora una volta in poche parole, l'uomo percepisce il suo simile anche come una cosa, una cosa alla stessa stregua di un secchio, di un telefono, di un libro, insomma, e questo è molto importante, come uno strumento. Né basta: perché questa percezione è comune a tutti gli uomini, e dunque la reificazione dell'essere umano è condizione ineliminabile, almeno da un punto di vista conoscitivo, dell'esistenza. Se proviamo a unire questo fondamentale assunto dell'analitica esistenziale di Heidegger con le suggestioni pirandelliane, da un lato, e con la celebre battuta sartriana “l'inferno, sono gli altri”, ne emerge un quadro del mondo in cui sono gettati, senza che sia stata data loro possibilità di scelta, gli umani, più simile a una gabbia che a uno spazio aperto: una gabbia dalle sbarre invisibili, dove si agitano esserini sperduti, vestiti delle loro abitudini, dei loro preconcetti, dei loro affetti, o degli affetti che impone loro la gabbia-società, esattamente come sono rivestiti dagli abiti che indossano quotidianamente. Sono tutti lì, ad aspettare gli ordini, o gli aiuti del sociale, più o meno come se degli alieni ci avessero creato e magari civilizzato per loro trastullo, e adesso stessero tranquillamente a guardare cosa combiniamo, come i bambini stanno a guardare i criceti che giocano nella loro gabbietta.
Il sociale ci invia una musichetta, e balliamo, ci invia dell'acqua e beviamo, ci invia armi e uccidiamo: marionette dai fili invisibili, ci sentiamo e siamo sempre sotto gli occhi di tutti, come gli attori sono sotto gli occhi del pubblico a teatro. Veniamo scrutati, ma ci sentiamo tranquilli sinché siamo certi di star recitando bene la nostra parte: il nostro star bene passa sempre dallo sguardo degli altri o dalle istruzioni del capocomico di turno, che ci lancia in scena ciò che può metterci in grado di passare a un'altra parte da recitare.
La vita è un teatro, nel senso greco del termine: c'è, perché viene guardata, e tutte le nostre sensazioni, azioni, tutti i nostri dolori, le nostre vergogne, le nostre gioie passano attraverso questo sguardo onnipresente, sia esso quello del capocomico, del sociale o degli alieni che ci hanno forse scaraventato su questo mondo.
Chi cercasse altro da questo desolante quadro in Bestie di scena, scritto e diretto da Emma Dante, in scena al Verga di Catania dal 7 all'11 novembre, peccherebbe di un altrettanto desolante ottimismo: perché il teatro moderno, quando è vero e grande teatro come questo, non rassicura, non diverte, non tranquillizza, ma mostra la vita nuda in un senso ancora più profondo di quello teorizzato da Pirandello. Noi siamo quel che gli altri guardano, e dobbiamo essere solo questo, se vogliamo continuare a definirci normali: come uccellini in gabbia, ripetiamo a ogni istante gli stessi gesti, non quelli dettati dalla natura, ma dal sociale, e spogliarsene significa solo indossare altri gesti, quelli che l'esterno (e chi ci sia all'esterno ha poca importanza) continua a imporci. Fino a quando? Fino a quando sarà troppo anche per le bestioline in gabbia o fino a quando queste bestioline si annienteranno a vicenda, sempre su ordine dell'esterno?
Con questo suo lavoro, Emma Dante è riuscita senza una parola, ma affidandosi al nudo quotidiano (fatto di magri e grassi, di belli e brutti, non di palestrati distraenti) e alla mimica dei burattini dai fili invisibili, ad avventarsi contro i limiti stessi del teatro, ora lasciandolo irrompere nella vita altrettanto teatrale degli spettatori, che non si sono accorti che i movimenti ginnici degli attori erano già l'inizio della rappresentazione, ora rendendolo la vita stessa, o almeno quella vita gettata nel mondo di cui parlavamo prima, quell'esistenza che si lascia esistere, prona agli ordini del burattinaio, lo si voglia chiamare società, religione, morale o in mille altri modi. I burattini obbediscono sempre: bevono, mangiano, danzano, litigano, perché da qualche parte così vuole qualcuno. Non importa se sono nudi, perché anche adesso questo vuole il burattinaio, e perché nudi o vestiti non importa, l'essenziale è che siano sempre e comunque burattini…
Giuliana Cutore
9/11/2017
La foto del servizio è di Masiar Pasquali.
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