RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Ambo di Bizet su Torino

Dopo l'inaugurazione della stagione lirica 2019/2020 a ottobre con Les pêcheurs de perles, a dicembre il Teatro Regio di Torino torna a proporre Georges Bizet presentando il suo lavoro teatrale più noto, Carmen (libretto di Henri Meilhac e Ludovic Halévy, dall'omonima novella di Prosper Mérimée del 1845). Nel giro di tre mesi, il pubblico à l'ombre della Mole ha avuto modo di conoscere e apprezzare sia la produzione operistica giovanile, sia quella matura di questo autore in una sorta di mini-rassegna, anche se solo per sommi capi. Infatti, se Les pêcheurs de perles furono, se non proprio la prima produzione teatrale di Bizet (che fu Le docteur Miracle, del 1857), per lo meno costituirono il suo primo tentativo pienamente riuscito di misurarsi con la musica per il teatro. Carmen è invece il suo titolo definitivo, tanto per l'equilibrio totale del lavoro, quanto per l'innegabile fascino dei temi: ma, soprattutto, è il titolo definitivo perché è anche l'ultimo della sua carriera. Bizet morirà infatti nella notte del 3 giugno 1875, tre mesi esatti dopo il debutto della Carmen, all'Opéra-Comique di Parigi. La sera prima era andata in scena la trentatreesima replica dell'opera sulle quarantotto previste; ma anche così, anche con un numero così alto di repliche, pubblico e critica non furono clementi con questo titolo, che vide il successo qualche tempo dopo, quando tre nomi illustri del panorama musicale dell'epoca, Brahms, Cajkovskij e Wagner, e di un outsider come Nietzsche, divennero suoi accesi sostenitori. Troppo tardi: Bizet li guardava ormai tutti dall'alto.

La regia scelta per l'allestimento del Regio di Torino è quella di Stephen Medcalf già presentata al Teatro Lirico di Cagliari, che ambienta l'opera nella Spagna di metà anni Quaranta, nell'immediato dopoguerra franchista (impossibile non associare Hemingway). Secondo le scene di Jamie Vartan, che cura anche i costumi, la fabbrica di sigarette si trova dietro alti muri sbrecciati e la taverna di Lillas Pastia è una buca nel terreno fredda e squadrata, una sorta di bunker; col terzo atto ci spostiamo su una pista di atterraggio fortuna (tra i monti...), con tanto di bidoni di latta in fiamme per essere visibile da parte del monoplano appena atterrato (e presente in scena, la cui elica rallenta pigramente fino a fermarsi); al quarto atto ricompaiono i muri sbrecciati dietro i quali si consuma sia la corrida, sia l'uccisione di Carmen: lo spettatore ha modo di vedere solo il fatto compiuto, quando i muri, spostandosi, rivelano la donna stesa esanime ai piedi di un Don José che, come da copione, si autoaccusa del delitto e aspetta l'arresto. «Lo scopo della trasposizione dell'azione di Carmen è di creare un mondo pericoloso, non sentimentale e identificabile con più facilità dal pubblico», commenta Medcalf. Ci si può interrogare circa l'utilità di un'operazione del genere. La presunta maggior facilità di comprensione offerta al pubblico, per calarsi in uno scenario duro, spietato, fatto di contrabbandieri, soldati voltafaccia e individui di dubbio gusto, è opinabile, a meno di non aver vissuto tutti quanti il dopoguerra in Spagna, cosa piuttosto poco probabile. Si tratta, più prosaicamente, di un refresh non necessario dell'ambientazione, che nulla migliora e nulla peggiora nel panorama infelice delle rivisitazioni registiche moderne: ma, se non entusiasma da un lato, per lo meno non scandalizza neanche, poiché permette lo svolgimento della trama senza stravolgerla, né alterarla. I costumi sono chiaramente adattati al contesto, e in quest'ottica mantengono una loro coerenza: uniformi militari di quegli anni, castigato vestito sotto il ginocchio per la pudica Micaëla, gonne floreali e giacche chiare per la gente di Siviglia; rimane il variopinto costume tradizionale da torero di Escamillo per la sua entrata trionfale al quarto atto, vestito però tutto di bianco durante il Toreador. Carmen, come le sue amiche Frasquita e Mercédès, sono presentate non come le gitane della storia originale, ma come operaie della fabbrica, e come tali vestite da normali cittadine anni Quaranta. A farne le spese è talvolta la verosimiglianza: un regista che fa alzare a Carmen un fucile con una mano, dovrebbe prima informarsi su quanto pesi mediamente un fucile: non proprio un carico agevole, per un singolo braccio di donna...

Il versante musicale riserva aspetti disomogenei. Alla sua terza replica, domenica 15 dicembre 2019, Varduhi Abrahamyan, mezzosoprano impegnata nel rôle titre, esibisce spiccate capacità di interpretazione, calandosi a dovere nella parte di donna passionale e indomita. Vocalmente conferma quanto si era già apprezzato in lei in novembre, quando interpretò Maffio Orsini nella Lucrezia Borgia del Donizetti Opera Festival 2019: voce calda, senza nessun cedimento, in grado di dominare tanto il registro grave, nel quale si trova più a suo agio, tanto quello acuto. Suo contraltare maschile è il Don José di Andrea Carè, che proprio in Torino ebbe i natali e la prima formazione musicale, per poi studiare con niente di meno che Luciano Pavarotti, divenendone uno dei suoi ultimi allievi. Premesse promettenti che si traducono sulla scena nell'espansione di un canto a impostazione preferenzialmente lirica, dal fraseggio bello e legato e dalla chiara pronuncia francese, e dà il suo meglio nella romanza La fleur que tu m'avais jetée. Unico appunto è la recitazione, in alcuni punti troppo “abbaiata”, rabbiosa, a meno che questo risponda a un preciso volere del regista che voglia dipingere un Don José frustrato e inquieto, come dovesse sfogare una rabbia repressa. Il personaggio in effetti potrebbe esserlo, diviso com'è tra la figura di figlio modello e di amante, e tra le due donne, l'angelo e il demone. E se il demone è Carmen, l'angelo è Micaëla, la Micaëla di Giuliana Gianfaldoni, voce aggraziata, intonata e puntuale ma poco presente, piccola, che fatica ad affrontare Je dis que rien ne m'épouvante al terzo atto. Ancor meno prestante è l'Escamillo di Lucas Meachem, che si gioca il suo biglietto da visita, il già citato Toreador, dove il registro grave letteralmente sparisce, e per mancanza di fiato, e per mancanza di voce, dentro l'orchestra, riuscendo a raggiungere le note più gravi solo a patto di assottigliare di molto il volume. È un peccato, perché lo squillo e la robustezza nel registro centrale e sulle note acute è evidente. A livello vocale si riscatta nel prosieguo dell'opera, ma non riesce a trasmettere quell'aria da spaccone di cui il personaggio si imbeve.

Molto buono tutto il comprimariato: a due a due, sono Sarah Baratta e Alessandra Della Croce, rispettivamente Frasquita e Mercédès, Gabriel Alexander Wernick e Cristiano Olivieri, Il Dancaïre e Il Remendado, Costantino Finucci e Gianluca Breda, Moralès e Zuniga (voci, queste ultime, piuttosto corpose e degne di affrontare figure di maggior spessore). Espressivo il ruolo parlato di Lillas Pastia di Aldo Dovo. Marcello Spinetta e Giulio Cavallini sono un tenente e la guida.

Al solito Andrea Secchi istruisce il Coro del Teatro Regio al meglio, e il Coro risponde in modo adeguato, affiancato dai Cori di voci bianche del Teatro Regio e del Conservatorio Giuseppe Verdi di Torino, istruiti da Claudio Fenoglio.

La direzione dell'Orchestra del Teatro Regio di Torino è affidata a Giacomo Sagripanti, che per l'occasione utilizza l'edizione integrale, senza tagli nei dialoghi parlati e con la ripresa di passi generalmente omessi come il quintetto Carmen-Frasquita-Merdédès-Remendado-Dancaïre al secondo atto (e non solo). La lettura si dimostra attenta e sbalzata, e permette di far risaltare l'interessante orchestrazione di Bizet tanto a livello macroscopico, quanto microscopico (Richard Strauss additava questa partitura ai suoi allievi come modello da cui trarre esempio). Molti passaggi vengono deliberatamente rallentati, sicuramente come scelta stilistica. Ne vien fuori un'opera dove è più facile soffermarsi sul particolare e sul canto, reso più spianato, soprattutto là dove i numerosi duetti diventano tramite delle relazioni umane. Manca però quel tocco di magia riservato a poche bacchette, che fa accendere il tutto di una luce originale.

Christian Speranza

2/1/2020

Le foto del servizio sono di Edoardo Piva.